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ENCICLOPEDIA DEL CINEMA IN PIEMONTE

Cinema muto



Cenere
Italia, 1916, 35mm, B/N

Altri titoli: Les cendres du passé, Cinzas, Det största av allt

Regia
Febo Mari, Arturo Ambrosio Jr.

Soggetto
dal romanzo omonimo di Grazia Deledda

Sceneggiatura
Febo Mari, Eleonora Duse

Fotografia
Pietro Marelli, Giuseppe Gaietto

Interpreti
Eleonora Duse (Rosalia Derios), Febo Mari (Anania, suo figlio), Misa Mordeglia Mari (Margherita), Ettore Casarotti (il bambino), Ilda Sibiglia, Carmen Casarotti



Produzione
Società Anonima Ambrosio, Torino

Note
Visto censura n. 12.166 del 1.11.1916; 914 metri.
 
A seconda delle fonti, viene indicato come regista il solo Febo Mari oppure Mari insieme ad Arturo Ambrosio Jr. Le fonti Fiaf attribuiscono la regia a entrambi.
Esistono pareri discordanti anche sulla paternità della fotografia, attribuita a Giuseppe Gaietto o a Pietro Marelli.
 
Copie conservate presso: Cineteca del Friuli (Gemona); George Eastman House (Rochester); Museo Nazionale del Cinema (Torino); Museum of Modern Art (New York); National Archives of Canada (Ottawa); BFI - National Film and Television Archive (London); Cineteca Nazionale (Roma); Arhiva Nationala de Filme (Bucuresti).
Una copia del film, restaurata dalla Cineteca del Friuli in collaborazione con la Cineteca Sarda di Cagliari, della durata di 44 minuti (35mm, 808 m/2652 feet) è stata proiettata nel 1992 alle Giornate del Cinema Muto di Pordenone, con didascalie in italiano e una nuova partitura musicale del Maestro Bruno Moretti (velocità: 17 f/s). Provenienza: George Eastman House (Rochester).
 
Presso il Centro Studi del Teatro Stabile di Torino è conservato il Fondo Misa e Febo Mari, lascito di Misa Mordeglia Mari, contenente: lettere, biblietti e appunti legati alla lavorazione del film; alcuni telegrammi di Eleonora Duse a Febo Mari e alla moglie Misa; tre lettere del produttore Arturo Ambrosio e una lettera di Grazia Deledda. I documenti sono stati pubblicati nel n. 64 del Notiziario dell’Associazione Museo Nazionale del Cinema (Torino, dicembre 2000).




Sinossi
Sardegna, inizio Novecento. Respinta da tutti per aver avuto un figlio illegittimo con un uomo sposato, la giovane Rosalia lascia il paesino dove vive e si reca dal padre del bambino, che ha chiamato Anania, per assicurarsi che il piccolo possa venir allevato in modo adeguato e senza subire ripercussioni a causa della propria nascita. La donna sparisce, sopportando da sola il dolore della perdita, mentre il figlio completa i propri studi a Roma e si fidanza con l’amica d’infanzia Margherita. Tornato in Sardegna, il giovane cerca Rosalia e le dà un appuntamento a cui la donna, precocemente invecchiata a causa di una vita di stenti, si presenta non senza esitazioni; il figlio desidera recuperare il tempo perduto e formare una famiglia con lei e Margherita, alla quale chiede di accettare sua madre. Messa al corrente della risposta negativa della ragazza, Rosalia parte nuovamente, trovando la morte poco dopo e Anania, che ha rotto il fidanzamento con Margherita, non fa in tempo a soccorrerla.




Dichiarazioni
«Che cosa è stata la lavorazione di Cenere! Faticosissima, perché la Duse aveva tanta paura... “E mi tenga nell'ombra, mi tenga nell'ombra... Le mani rivelano il viso... Non voglio i primi piani...” Era piena di ansia, piena di paura... Ecco perché fece il film con Mari. E fu sempre molto gentile e molto buona con lui. Ho delle belle lettere della Duse. Era molto cara; adesso quando sento dire che era una “pososa”... protesto che non è vero... era un'anima in pena, un'anima superiore, di una sensibilità portata proprio al parossismo, all'estremo, ma era tanto buona. Aveva dei momenti di grande sconforto. Per esempio, mentre lavo­ravamo a Cenere, e ci trovavamo a Balme - dove si giravano gli esterni sardi -, lei ebbe un giorno di malinconia, di ricordi tristi, chi lo sa; allora venne da me la sua governante e mi disse: “Signora, la Signora Duse la vuole”. Io andai da lei e trovai questa poverina a letto. Mi abbracciò forte forte forte, pianse non so per quanto tempo senza parlare. Un pianto direi ininterrotto, e poi mi disse: “Grazie Mazzolino, ora vai!” Aveva bisogno di qualcuno che, anche in silenzio, le fosse vicino. Aveva molta simpatia per me, mi chiamava Mazzolino perché quan­do mi conobbe avevo un cappellino con un mazzolino di rose. Allora ero giovane giovane, non avevo neanche vent'anni, e allora mi chiamò sempre Mazzolino. Nel film Cenere ci sono anch'io. È un'apparizione fugace, nel ruolo di Margherita, la fidanzata del protagonista. Un'altra attrice aveva già fatto questa breve interpretazione, ma la Duse disse: “No, no, io voglio Mazzolino”. Allora rigirarono la scena con me, e così com­paio anch'io nel film. Era molto cara, molto buona con me, non è vero che fosse una “posatrice”, era una donna molto sensibile, e faceva molte opere di bene, di nascosto» (M. Mordeglia Mari, “Mondo Niovo 18-24 ft/s” n. 0, 2002).





«C’est le chef-d’oeuvre. Car, à part la beauté du scénario qui a été adapté d’après le roman de notre grand écrivain Grazia Deledda, et qui se déroule dans un des plus beaux paysages d’Italie, la Sardaigne, ce qui fait que cette bande soit attendue avec une anxiété formidable, c’est le nom de son interprète: Eleonora Duse. Tous ceux, et il y en a des centaines de milliers de par le monde, qui conservent le souvenir formidable de cette grande femme qui emut et enthousiasma tour à tour les foules de tous pays du monde, ne pourront pas sans emotion penser à cette résurrection, ou pour mieux dire, à cette réhincarnation de l’immortelle artiste par l’écran. Il represente à lui seul le plus grand evenèment mondial du cinéma, le miracle impossible et imprévoyable, la chose unique. Qui, comme toujours s’accomplit par l’effort intelligent de la maison Ambrosio, de cette gloire de nôtre industrie, et qui vaudra à son nom plus que tous les lauriers qu’elle a déjà amassès» (“L'Arte Muta”, a. I, nn. 6-7, 15.12.1916-15.1.1917).
 
«Al Cinema Ambrosio - Cenere (Ambrosio film). Una delusione, francamente, dati i nomi non comuni degli interpreti. Primo errore: un soggetto disgraziato che in cinematografo dice meno che niente e che dimostra ancora una volta come non basti il nome di una scrittrice come la Deledda per ottenere un buon argomento. La Duse e il Mari, che, come ripeto, son due artisti troppo apprezzati per essere discussi, si trovano costretti in scene inverosimili e senza rilievo. La messa in scena stessa è ben poco elogiabile ed in conclusione una grande e vera delusione, molti quattrini sprecati ed un’offesa ad una grande artista che forse avrebbe fatto meglio a non venire al cinematografo attraverso un simile soggetto. La fotografia ha dei quadri di buon effetto, ma ne ha moltissimi addirittura sfocati» (A. Menini, “Film”, a. IV, n. 17, 4.6.1917).
 
«La Duse accolse la proposta con sospetto; quasi direi con timore; ma poi, dopo lunghi colloqui, finì per accettarla. Pose però due condizioni: volle, cioè, riservare la scelta del soggetto a sé, e degli artisti che avrebbero dovuto eseguire il film. E come soggetto, indicò Cenere, romanzo di Grazia Deledda, con la quale, il 1 luglio 1916, fu stipulato il relativo contratto. Questo fu il primo sbaglio: il soggetto scelto - ottimo, come opera letteraria - non è adatto al nostro pubblico di allora per un'opera cinematografica, e ciò fu detto e ripetuto alla Duse. Ma tant'è: essa si era innamorata della parte, sentiva il soggetto, concepiva una cinematografia tutta statica, tutta pose, tutta a quadri, singolarmente presi, di particolare effetto artistico; ed a questo, secondo l'attrice, rispondeva pienamente il soggetto. Di questo si incominciò, perciò, la sceneggiatura; che fu apprestata a Roma e nella villa della Duse, a Viareggio, dalla Duse stessa e, con grande amore da Febo Mari, che la Duse aveva scelto per interpretare la parte del figlio nel romanzo della Deledda. Questo lavoro fu un vero tormento per l'attrice: anima sensibile e delicata, finiva per appassionarsi talmente al dramma, da doversi abbandonare, spesse volte, a commozioni intense e a crisi di pianto. Venne poi il momento di incominciare “a girare” il film negli stabilimenti dell'Ambrosio di Torino. Seconda fase del tormento della Duse... e di coloro che, con lei, collaboravano alla fabbricazione del film. La lavorazione - per criteri tutt'affatto personali della Duse, riguardanti sia la sua concezione del cinematografo sia il modo col quale ella intendeva presentarsi al pubblico - dovette procedere in modo del tutto nuovo; la Duse non solo non volle mai fare primi piani e accostarsi alla macchina da presa cinematografica, ma mentre nelle prove ella recitava secondo le indicazioni dei tecnici, quando si girava, ella si allontanava abitualmente dall'obiettivo ed eseguiva la scena secondo improvvisi atteggiamenti del capo, delle braccia e del corpo, che, sulla scena, potevano costituire il superlativo assoluto dell’arte drammatica, ma che cinematograficamente diventavano un orrore!» (F. Soro, Splendori e miserie del cinema: cose viste e vissute da un avvocato, Consalvo, Milano, 1935).
 
«E Ambrosio ci racconta un episodio inedito e interessante riguardo al film Cenere, opera citatissima, ma che a lui non soddisfò affatto, proprio per via della Duse. Gabriele D’Annunzio, con cui era amicissimo, insisteva perché Eleonora lo interpretasse; ma Ambrosio non credeva all’adattabilità cinematografica della grande tragica. “Finalmente mi decisi e con cinque dei miei migliori operatori andai a Fregene, dove l’attrice aveva una villa, e cominciammo a girare. Furono, per me, giorni di sudore freddo, alla fine, lo stesso D’Annunzio mi prese da parte e mi sussurrò ‘Arturo, pazienza!’” E Arturo ebbe pazienza, perché con Gabriele erano fraterni compagni; e perchè non era vero che il poeta prendesse solo soldi e se ne infischiasse del cinema» (F. Moccagatta, “Cinema” n. 169, 1.7.1956).
 
«E se Pastrone aveva convinto Ermete Zacconi ad accostarsi al cinema, con risultati eccellenti; quattro anni dopo, nel 1916, sarà Ambrosio a tentare la grande carta della “più grande attrice drammatica italiana”, Eleonora Duse. Dopo lunghe insistenze e trattative, portate avanti da Febo Mari per conto dell’Ambrosio, l’attrice finalmente cedette e acconsentì a interpretare Cenere, che ella stessa e il Mari avevano tratto dal romanzo di Grazia Deledda. Un film che non ebbe successo: ma è l’unica immagine “viva” che ci rimane della Duse» (G. Rondolino, I giorni di Cabiria, Lindau, Torino, 1993).
 
«Cenere segna l’esordio al cinema di una primadonna del teatro italiano. Eleonora Duse, non senza titubanza, si fa convincere dall’Ambrosio a passare sullo schermo. La Duse sceglie l’affascinante Febo Mari come co-protagonista, ma il soggetto, tratto dal romanzo di Grazia Deledda, si rivela cinematograficamente inadatto. La critica e il pubblico stroncheranno l’esperimento, sintomatico del desiderio del cinema, sofferente di un complesso di inferiorità, di meritarsi la considerazione dell’alta borghesia culturale italiana»
(M. Canosa, brochure della rassegna cinematografica A nuova luce: cinema muto italiano, Bologna, 21-30 novembre 2006).
 
«Eleonora Duse è il perno su cui ruota il divismo cinematografico italiano degli anni Dieci: la sua figura è il crocevia delle tensioni artistiche che animano le attrici italiane, ma la Duse andrebbe piuttosto definita un’autorità morale e un modello a cui, per motivi diversi, non possono sottrarsi le giovani dive coetanee di Chaplin. Cenere di Febo Mari (1916), l’unico film interpretato dalla Duse, solitario e luminoso esempio di cinema d’arte, va quindi ricollocato nel ruolo che gli spetta cioè posto all’apice della breve parabola disegnata in Italia dal “diva film”. Cenere rappresenta il voto di povertà che la massima gloria del teatro italiano pronuncia davanti al pubblico negli anni del conflitto, quando il clima bellico le renderà odioso fare spettacolo come se nulla fosse accaduto: costringe gli spettatori affamati di evasione a guardare dentro il dramma della maternità e intanto allude alle madri di guerra rassicurandole circa la provvida grandezza del loro sacrificio. Il pubblico non capirà e lei, dopo l’insuccesso, si ritirerà in disparte ma anche in seguito il film le apparirà una tappa fondamentale del suo cammino artistico. Lo proseguirà tornando a teatro nel 1921 ne La donna del mare di Ibsen, che stava già provvedendo a ridurre per lo schermo quando la scure del fiasco economico di Cenere si abbatté definitivamente sulle sue ambizioni cinematografiche» (C. Jandelli, Le dive italiane del cinema muto, L'Epos, Palermo, 2006).
 
«I veri esterni del film non furono girati in Versilia e in Liguria, come fior di storici ancora scrivono, ma nelle valli di Lanzo presso Torino. Spedire la troupe in Sardegna sarebbe stato molto più costoso per l'o­culato Ambrosio, senza contare il rischio di essere colati a picco da un siluro. Cosicché domenica 16 luglio la Duse si trasferisce a Torino, dove prende alloggio dapprima al Palace Hotel. Nella seconda parte del soggiorno torinese alloggerà al Grand Hotel Europe in Piazza Castello, angolo via Roma, scomparso in seguito alla ristrutturazione del centro di Torino realizzata dal fascismo all'inizio degli anni trenta. Gli interni vennero girati nei nuovi (dal 1914) stabilimenti Ambrosio, che sorgevano di là della Dora in Borgo Rossini, tra le vie Mantova, Catania e Padova. Il 17 luglio la Duse scrive alla figlia: “Il mattino c'è stata la presentazione di tutto il personale, 204 persone lavorano nella mia film... Mi sembra di sognare”. Gli esterni “sardi” vennero invece realizzati nella seconda metà di agosto tra Ala di Stura e Balme nelle valli di Lanzo, all'epoca una delle villeggiature predilette dalla buona società torinese grazie alla contenuta distanza dalla città (una cinquan­tina di chilometri) e alla comodità della ferrovia Torino-Cirié-Lanzo, che proprio nel 1916 giunge fino a Ceres. […] Nella valle che si gloria della visita di illustri alpinisti come l'infaticabile collezioni­sta di vette Coolidge, o il “poeta del Cervino” Guido Rey, la lavora­zione del film è totalmente dimenticata e della stessa Duse si traman­da una vaga memoria orale. Si parla di un autografo lasciato sul libro degli ospiti dell'Hotel Belvedere di Balme, ma l'ambita pagina è stata strappata. […] Inoltre ora sappiamo che la location è testimoniata da inconfondi­bili immagini del paesaggio della Val d'Ala rimaste in diverse sequen­ze del film. Si riconosce in particolare la chiesetta di San Bartolomeo della frazione Cresto, un chilometro a monte di Ala di Stura, in due diversi punti: nella prima parte del film, quando la diligenza con Anania bambino percorre un tratto della polverosa strada provinciale; sul finale, durante la duplice galoppata sullo stesso tratto di strada chiuso in fondo dalla chiesetta con campanile. Si intravede anche fugacemente l'abitato di Balme con la parrocchiale quando Anania apre la finestra di una baita. Gli attori dell'Ambrosio alloggiarono al Grand Hotel di Ala di Stura, prestigioso albergo tuttora esistente, ma da tempo decaduto. Venne aperto nel 1910 ed era frequentato d'estate da clientela internaziona­le» (P. Crivellaro, “Notiziario dell’Associazione Museo Nazionale del Cinema” n. 64, 2000).
 
Dietro incarico di Ambrosio, nel 1916 Febo Mari, il più noto interprete dei drammi dannunziani, già affermatosi anche in campo cinematografico come attore e come regista, riuscì a convincere la più grande attrice teatrale dell’epoca, l’ormai anziana Eleonora Duse, a interpretare un film. Il progetto di Ambrosio voleva essere culturalmente qualificato e al tempo stesso mirava a sollecitare la curiosità e l’apprezzamento del pubblico più vasto. Egli univa infatti nella stessa opera due glorie nazionali: il “mostro sacro” delle scene italiane e il premio Nobel della letteratura italiana Grazia Deledda. L’esperienza di Mari e la sua notorietà nel mondo del teatro erano garanzia del buon esito delle riprese. Mari stesso, insieme alla grande attrice e con la consulenza della Deledda, preparò l’adattamento cinematografico del testo letterario. Il film, di ambientazione sarda, venne girato quasi completamente in Val di Lanzo, vicino a Torino. Dal carteggio tra Mari, Ambrosio e la Duse, pare chiaro che quest’ultima si avvicinò al cinema con timore e preoccupazione, perché capiva perfettamente che questo mezzo espressivo era del tutto diverso dal teatro e che da un lato richiedeva all’attore una tecnica recitativa particolare, e dall’altro offriva allo spettatore una fruizione che non aveva nulla a che fare con il rapporto “fisico” esistente tra platea e palcoscenico. Con grande intelligenza e intuito, ella si sforzava di capire le caratteristiche del linguaggio cinematografico al fine di riuscire a rappresentare in modo efficace sullo schermo il ruolo di Rosalia. “Il cinematografo è un campo tutto nuovo”, osservò, “e il primo errore consiste nel fatto che versiamo vecchio vino negli otri nuovi. La maggior parte di noi è gente già guastata dal teatro… Il cinematografo ha bisogno di tutt’altri mezzi, ma offre delle possibilità che il teatro non può dare”. Sembra dunque che la Duse volesse mettere in discussione tutta la sua esperienza teatrale per affrontare un mezzo espressivo più nuovo, moderno e stimolante. A differenza di altre attrici teatrali che passarono alla recitazione di fronte alla cinepresa senza modificare per nulla la loro tecnica attoriale, Eleonora Duse si preoccupava del modo in cui veniva inquadrata, dell’effetto che avrebbe potuto avere sul grande schermo un suo primo piano. Il contrasto tra bianco e nero, luce e ombra indicava, secondo lei, la via verso i valori assoluti dell’espressione artistica; il testo della Deledda, per la sua tematica intimistica e dolorosa, richiedeva senz’altro, a suo parere, la penombra, e imponeva una recitazione sobria, trattenuta, che evitasse ogni ombra di retorica. Nel luglio del 1916, dopo una giornata di prove prima dell’inizio delle riprese, l’attrice scriveva a Mari: “Mi metta nell’ombra. Mi metta nell’ombra, la prego […], mi tenga di scorcio, a passaggio, nulla sia immobile per questo ritorno di madre al figlio. Au premier plan, verso la folla, verso la belva, rimanga Lei, Lei ne ha la forza. Se dovessi, (supponiamo! ma, non oserò mai farlo. Se dovessi recitare Cenere, anche allora, pur riconoscendo l’opposta cosa che è film e recita, pure, resterei nell’ombra, come la madre deve col figlio”. Nella stessa lettera l’attrice dimostra la propria competenza indicando qualche modello di inquadratura e di luce che le sembrano adatti al film e a lei stessa: “Ho visto in Cavalleria rusticana (quella di Mascagni) (era presente Ambrosio) ho visto certe penombre, certi scorci che farebbero al caso mio. Ho visto nella Ragnatela del Griffith, ho visto gente, o venendo di lontano, supplice o disperata, o in rivolta insomma, ho visto creature, a lampi, ma simili alla forza attuale che mi anima, pari alla visione che inseguo”. Il suo rifiuto del primo piano e della forte illuminazione rifletteva dunque una scelta espressiva precisa e non il tentativo di mascherare i segni della vecchiaia sul suo volto. “L’importanza della recitazione della Duse in Cenere, il suo muoversi in direzione vettorialmente opposta alla linea recitativa dominante nel decennio 1910-20” - secondo Gian Piero Brunetta – “consiste anzitutto nell’annullamento del corpo e nel rifiuto più totale del gesto enfatizzato”. Si veda a questo proposito, nel finale del film, la sequenza della morte di Rosalia: l’attrice si lascia cadere a terra pesantemente, d’improvviso, all’interno della sua casa immersa quasi nell’oscurità; il corpo steso a terra è inquadrato solo parzialmente, nella parte inferiore. Ogni facile “effetto” drammatico viene accuratamente evitato. L’originalità di questo tipo di recitazione e la volontà di contrastare il fenomeno divistico furono assai poco apprezzati dal pubblico e dalla critica, con il risultato che la Duse abbandonò il progetto di girare un altro film con Ambrosio e non ripetè più alcuna esperienza cinematografica.


Scheda a cura di
Azzurra Camoglio

Persone / Istituzioni
Febo Mari
Eleonora Duse
Misa Mordeglia Mari


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