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ENCICLOPEDIA DEL CINEMA IN PIEMONTE

Cinema muto



Il fauno
Italia, 1917, 35mm, B/N


Regia
Febo Mari

Soggetto
Febo Mari

Sceneggiatura
Febo Mari

Fotografia
Giuseppe Paolo Vitrotti

Interpreti
Febo Mari (il Fauno/il mito), Nietta Mordeglia (Fede), Elena Makowska (Femmina), Vasco Creti (Arte), Oreste Bilancia (Astuzia), Ernesto Vaser (il carrettiere), Fernando Ribacchi, Giuseppe Pierozzi (un giocatore)



Produzione
Società Anonima Ambrosio, Torino

Note
Visto censura n. 12.769 del 6.6.1917; 1.385 metri
 
Secondo alcune fonti il film è liberamente ispirato alla novella allegorica The Pilgrim's Progress from This World to That Which Is to Come di John Bunyan.
Nietta Mordeglia divenne la moglie di Febo Mari e assunse il nome d’arte di Misa Mordeglia Mari.
 
La Cineteca del Friuli, in collaborazione con il Museo Nazionale del Cinema di Torino e il Royal Film Archive di Bruxelles, ha restaurato il film a partire da una copia nitrato del Suomen Elokuva-Arkisto (Finnish Film Archivi) di Helsinki, ripristinandone l’alternanza originaria di viraggi e imbibizioni.
Il film si apre con un Prologo che cita i versi contenuti nelle dichiarazioni dell’autore riportate nella presente scheda.
 
Una breve sequenza del film è presente in Dopo mezzanotte (2004) di Davide Ferrario. 




Sinossi
Uno scultore abbandona l’amica e modella Fede nel proprio studio per prendere parte a una serata mondana al Casinò (e probabilmente incontrare un’altra donna); sconsolata e gelosa, la giovane si addormenta nell’atelier e, nel suo sogno, la statua di un fauno prende vita e le offre un amore puro, appassionato e disinteressato. Inizialmente spaventata poi sempre più attratta, Fede accetta di condurre con la creatura mitica un’esistenza basata sui bisogni essenziali, lontana dal lusso e dall’ipocrisia finché, al risveglio, scopre che la statua del fauno è stata venduta alla Principessa Femmina. Alla luce della lotta che contrappone le due donne per il possesso della creazione marmorea, lo scultore decide di distruggere per sempre la propria opera.




Dichiarazioni
«Nulla di nuovo sotto il sole. Il mio è il racconto d’una storia che, nata col mondo, morirà col mondo: storia d’amore; poiché l’amore è il solo sentimento che non sia invecchiato... dopo tanti secoli. Di nuovo non ci sarà che la forma di questo mio racconto che è un sogno. E perché il titolo non eserciti una maggior suggestione che io non abbia voluto – in questo tempo in cui non c’è attrice che non profili sullo schermo un volto dai muscoli contratti nello spasimo della passione o del vizio – presentando il mio Fauno dirò al pubblico dello schermo: Io brandisco la ferza di Menippo/flagello la lussuria, le mollezze/i costumi ed i vizi del mio tempo/e, per i sani spiriti del mondo,/io canto il canto dell’amore primo. E queste poche sillabe sono la protasi, l’analisi e la sintesi del mio lavoro. Il Fauno, il Dio dei boschi, il mio Fauno, fu generato dall’amore di Fede e fu formato dal pollice de l’Arte. Quando l’Arte, come oggi, anziché alle aure olezzanti dei boschi, chiede alle fiale dei profumi un attimo d’ebbrezza, e col minio si fabbrica sul volto un altro volto, e, distaccandosi dalla Fede nella Purezza, rammollisce nel vizio, rotola nel fango; Fede cala sulle pupille inorridite le palpebre pietose e sogna il sogno dell’Amore primo. E l’Amore primo è il mio Fauno che fugge l’umanità decadente e si rincantuccia, con la Fede sua, in un angolo di mondo. E trova che una capanna vale una reggia, che le radici della terra e le acque delle fonti hanno sapore più buono delle carni e del sangue che sanno di delitto. E il sole luce sul suo giorno operoso. E le tenebre proteggono il sonno della sua notte di riposo, finché l’Insidia, che veste le spoglie di Caino, lo colpisce alle spalle e l’impietra. Il mio Fauno ha le forme del mito e della favola. Dal capo all’anca ha forme umane. Sulla fronte porta l’arme che difende e che offende – un’arme appena foggiata – un segno – un rudimento. Non è satiro il mio Fauno, sebbene, dal cuore in giù, abbia forme bestiali e poggi il peso del corpo su stinchi di capro. Il seguito di queste brevi note non è fatto di parole; è compendiato negli atti che si vedono: Ha inspirato l’amore il mio racconto/ch’io porgo in dono ad anime gentili/ma se non giunsi a suscitar diletto/dirò – con una frase del Manzoni – /Credete pur che non l’ho fatto apposta» (F. Mari, “La Vita Cinematografica”, nn. 15-16, 22/30.4.1917).




«L’arte è una bella cosa, e noi ne siamo stati sempre strenui difensori, ma non deve soverchiare l’industria, ché anche troppo i nostri concessionari gridano che il pubblico preferisce assai meglio i lavori che lo interessino e lo divertano, pur peccando dalla parte artistica. Noi li combattiamo, ma siamo costretti a ritirarci dalla lotta quando ci presentano dei Fauno di Febo Mari, nei quali c’è dell’arte e del concetto nobilissimo, ma non c’è interesse, non c’è vita; non c’è azione – o per lo meno è molto scarsa – e quel ch’è peggio, è incombente, è pesante assai. L’idea del sogno, ispirata forse dalla Niobe, non ha, come nella bella commedia del Poulton, un’origine di verosimiglianza. Non sappiamo di dove quell’ingenua fanciulla (appare per lo meno tale) tragga tutti gli elementi del suo sogno, che appartengono a una vita che l’autore non ci fa sapere ch’ella abbia né vista, né conosciuta. Tutto ciò sarebbe perdonabile, se almeno, qua e là, sfuggisse qualche sprazzo di luce viva: se qua e là l’azione si risollevasse un po’: se – come abbiamo detto più sopra – vi fosse un po’ di brio che scuotesse il torpore dal quale è invaso lo spettatore fin dall’inizio del lavoro. Viceversa le scene seguono le scene con una monotonia opprimente, che per poco non concilia il sonno. E tale non è soltanto il nostro parere, ma disgraziatamente, anche quello del pubblico. Febo Mari è un ottimo attore drammatico ed è anche un buon artista cinematografico; scrive anche bene, quantunque anche un po’ da esaltato, e sappiamo ch’è anche un buon direttore; ma si accontenti di questo, che è già fin troppo. Creda a noi, che del mestiere siamo più vecchi di lui, che il fare opera cinematografica non è sempre dei grandi ingegni: ed è falso, errato addirittura, il credere che la grande massa del pubblico debba giudicare le opere col nostro criterio; che debba gustare quello che sembra prelibato ai nostri palati. L’autore cinematografico non deve accontentarsi che l’opera sua piaccia al dieci per mille delle persone che la vedono, ma alla totalità, o almeno a una grossa percentuale; altrimenti la baracca va in aria con tutti i burattini. O così, o non si fa della cinematografia. Molto buona e ottima l’interpretazione, massime da parte del Mari e della sig.na Mordeglia. Bene tutti gli altri, perfino la Makowska! Fotografia splendida» (P. da Castello, “La Vita Cinematografica”, 22/30.11.1917).
 
«Il fauno ha fatto sorridere un certo pubblico. Ma gli autentici artisti ne sono entusiasti. Febo Mari, Elena Makowska e l’impressionismo simbolico degli italiani d’avanguardia – espresso attraverso la messa in scena, attraverso l’idea, attraverso certi paesaggi trattati come quadri – formano un insieme luminoso e raro. Ecco un genere assai interessante. Il fuoco l’aveva già indicato» (Louis Delluc, “Le Film”, nn. 110-111, 29.4.1918).


Scheda a cura di
Azzurra Camoglio

Persone / Istituzioni
Febo Mari
Giuseppe Paolo Vitrotti
Elena Makowska
Vasco Creti
Oreste Bilancia
Ernesto Vaser


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