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ENCICLOPEDIA DEL CINEMA IN PIEMONTE

Lungometraggi



Mio fratello è figlio unico
Italia/Francia, 2006, 35mm, 100', Colore

Altri titoli: My Brother Is an Only Child (Usa); Mon frère est fils unique (F); Mein Bruder ist ein Einzelkind (D); Min bror är enda barnet (SV); Min bror er enebarn (DK); O adelfos mou einai monahopaidi (GR); Abim evin tek çocugu (Turchia)

Regia
Daniele Luchetti

Soggetto
dal romanzo “Il fasciocomunista” di Antonio Pennacchi

Sceneggiatura
Stefano Rulli, Sandro Petraglia, Daniele Luchetti

Fotografia
Claudio Collepiccolo

Musica originale
Franco Piersanti

Suono
Bruno Pupparo

Montaggio
Mirco Garrone

Scenografia
Francesco Frigeri

Costumi
Maria Rita Barbera

Aiuto regia
Gianni Costantino

Interpreti
Elio Germano (Accio), Riccardo Scamarcio (Manrico), Angela Finocchiaro (madre), Massimo Popolizio (padre), Luca Zingaretti (Mario Nastri), Ascanio Celestini (padre Cavalli), Anna Bonaiuto (Bella), Claudio Botosso (prof. Montagna), Diane Fleri (Francesca), Alba Rohrwacher (Violetta), Ninni Bruschetta (Bombacci), Vittorio Emanuele Propizio (Accio a 13 anni)

Casting
Gianni Costantino

Produttore esecutivo
Bruno Ridolfi, Matteo De Laurentiis, Gina Gardini

Produzione
Riccardo Tozzi, Marco Chimenz, Giovanni Stabilini per Cattleya, Babe Films

Distribuzione
Warner Bros. Italia

Note
2740 metri.
Suono Dolby Digital; montaggio del suono: gianluca Basili; assistente costumista: Marzia Nardone; maestro d'ami: Sal Borgese; stunt: Alessandro Borgese.
 
Locations: Monteporzio (PS), Segezia (FG), Pontinia, Sabaudia (LT), Ostia (Roma), Foggia, Roma, Torino (piazza 18 Dicembre, Via Borgodora, via Andreis), Moncalieri (TO, Bar del Peso).
 
Film realizzato con il sostegno di Film Commission Torino Piemonte.




Sinossi
Anni Sessanta e Settanta a Latina. In una famiglia proletaria due fratelli, Manrico e Accio, si confrontano e si scontrano per quindic'anni. Il maggiore, Manrico, è bello, carismatico, ha successo con le ragazze ed è impegnato politicamente a Sinistra; Accio è scontroso, attaccabrighe e vanta una militanza nel neofascismo. Entrambi innamorati della stessa ragazza, attraversano una stagione della storia italiana caratterizzata da fermenti sociali, scontri ideologici e lotta politica che confina con il terrorismo.




Dichiarazioni
«Il mio film si distacca da Il fasciocomunista, ha perso parte della connotazione politica in favore dell'umanità dei singoli personaggi, con un dolore e un senso di esclusione meno presenti nel libro. Sarebbe stato un errore illustrare un romanzo riuscito: parto da lì, ma per riflettere la mia esperienza di vita. [...] Durante una riunione di produzione, giocherellavo con l’mp3, ho ascoltato la canzone omonima di Rino Gaetano, ed ecco il titolo. Solo dopo ho scoperto che stava anche in Lavorare con lentezza, ma non ho voluto vedere il film per non esserne influenzato. [...] I due fratelli riflettono le anime diverse del Paese: da una parte, legato alla tradizione e all'onore prebellici; dall’altra, desideroso di cambiamento e valori nuovi. Una spaccatura che ci sarà sempre, tra nord e sud, destra e sinistra. [...] Mi hanno aiutato molto le parole di ?echov: "Un artista non deve mai prendere posizione politica". Mio fratello è figlio unico non parla di politica, ma di persone che fanno politica. [...] Ho girato - cosa per me nuova - cercando un'impressione di freschezza, verità e spontaneità. A Elio Germano (Accio), Riccardo Scamarcio (Manrico) e gli altri ho chiesto di evitare vezzi e stereotipi recitativi, e di ricorrere alle loro esperienze emotive. Ho eliminato gli attriti del set, non gli ho mai detto dove fosse la macchina da presa. E all'operatore dicevo: ora succederà qualcosa davanti a te, riprendila come fosse un documentario. Spero che lo spettatore si senta di fronte a eventi emotivamente autentici, e che lo stile passi in secondo piano» (D. Luchetti, “Rivista del Cinematografo” n. 4, aprile 2007).
 
«Si sono messi a lavorare sulla roba mia senza che ne sapessi niente. È vero, avevo venduto i diritti a Mondadori, che glieli ha passati: è colpa mia non essermi tutelato. L'ho saputo dai giornali: ho chiamato Cattleya, ho parlato con il produttore Riccardo Tozzi, invano ho cercato Luchetti. Passano due anni, dai quotidiani locali vengo a sapere che a Latina stanno facendo i provini per le comparse. Mi presento lì, mi metto in fila, e mi chiedono: "Lei che parte pensa di fare?". "Quella del testa di bip", gli ho detto. [...] II mio giudizio sarebbe forzatamente comparativo, per questo alla proiezione ho portato mia moglie, che come i miei figli non mi legge. Comunque non mi è dispiaciuto, l'attore che fa Accio da piccolo e il rumorista sono sublimi» (A. Pennacchi, “Rivista del Cinematografo” n. 4, aprile 2007).





«II film si basa sulla seguente scommessa: raccontare un tratto di storia italiana - precisamente gli scontri che dal dopoguerra fino agli anni Settanta e oltre, contrapposero gruppi di estrema sinistra e dì estrema destra - attraverso il rapporto di odio e amore tra due fratelli cresciuti a Latina; uno, comunista, l'altro, almeno in un primo tempo, fascista. Si può comprendere subito il rischio dell'operazione: non è difficile, forse impossibile, riassumere in due soli personaggi quel complesso di pensieri e di sentimenti che indusse tante persone a schierarsi in uno di quei due raggruppamenti politici? Tuttavia, l'equilibrio, ma anche la deliberata limitatezza dell'impostazione, fa sì che il film non tenti nemmeno una sintesi storica, e nemmeno voglia troppo approfondire i moventi di un conflitto sociale. [...] Dall'impostazione deriva il tono del racconto: non sostenute interamente da forti, o perspicue, ragioni, le azioni di lotta dei due protagonisti ci sembrano intemperanze giovanili, colpi di testa, ora viste con simpatia (nel caso dei gruppi di sinistra), ora perdonate con indulgenza, ma sempre allontanate da un velo di scetticismo. Non parteggiando e non immedesimandoci profondamente con nessuno dei due personaggi, gli episodi del racconto sfilano ai nostri occhi come una serie di quadri storici viventi [...] che divertono, e impressionano favorevolmente per la naturalezza e la persuasività della ricostruzione; e a cui assistiamo con distacco emotivo» (G. Cercone, “Cinemasessanta” nn. 292/293, aprile-settembre 2007).
 
«A sceneggiare con lo stesso Luchetti è la premiata coppia di scrivani Stefano Rulli e Sandro Petraglia, reduci dalla palestra de La meglio gioventù. [...] Quelle atmosfere si respirano anche qui, a partire dalle scenografie di Francesco Frigeri e dai costumi di Maria Rita Barberi, che per volontà di Luchetti hanno conservato solo oggetti e abbigliamenti "attuali". Indice significativo della volontà di regista e co-sceneggiatori di svecchiare la storia per renderla più appetibile al pubblico, soprattutto quello dei giovanissimi Scamarcio addicted. II che non va a scapito della verosimiglianza, almeno sotto il profilo dell'ambientazione: la Latina che fu, la Littoria costruita dal fascismo in una manciata di mesi, è stata ritrovata a Monteporzio, Segezia, Pontinia, Sabaudia, Ostia e Foggia. Ricostruzione architettonicamente ineccepibile, meno convincente sotto il profilo socio-politico: da qui la querelle con Pennacchi, che si è sentito tradito per "la banalizzazione del passaggio di Accio, da destra a sinistra: il fascista è presentato ancora come un mostro, mentre il compagno ha sempre ragione", accusando i tre (Luchetti, Rulli e Petraglia) di "aver girato La meglio gioventù 2". AI massimo, diremmo, "la meglio famiglia", protagonista assoluta di Mio fratello è figlio unico a scapito del cóté politico. È comunque l'unica debolezza di un film che per il resto funziona e convince» (F. Pontiggia, “Rivista del Cinematografo” n. 5, maggio 2007).
 
«Gli anni Sessanta in Italia riportano alla mente tanti ricordi e non solo a chi li ha vissuti di persona, ma anche a coloro che li hanno conosciuti e amati tramite gli appassionati racconti fatti di lambrette, televisioni e duplex. Racconti dove non mancava mai la politica, solo quella bella, "pulita" dei grandi discorsi in piazza, degli sfottò fra camerati e compagni, delle "belle ciao" e delle "giovinezze", della politica giovanile, insomma, quella con tante idee e poca azione. Luchetti nel suo nuovo film Mio fratello è figlio unico, ci riporta indietro proprio in quegli anni per farci rivivere emozioni e passioni di un' Italia, forse, perduta. [...] il film non fa solo politica, anzi, la politica sembra diventare un pretesto per raccontare la famiglia, il disagio sociale, in maniera estremamente scanzonata, senza troppi vincoli di genere, un pregio che a tratti diventa un limite perché, nonostante una buona sceneggiatura, la pellicola cerca di coprire un po' troppe tematiche senza approfondirne nessuna, con risultati non sempre apprezzabili. Nonostante il gradevole inizio, infatti, il film, nel secondo tempo, sembra perdersi, sfilacciarsi in situazioni poco interessanti e mal congeniate che confluiscono, però, in un significativo finale di catarsi del protagonista» (F. Piano, “Film” n. 88, luglio-agosto 2007).
 
«La regia di Luchetti […] se dal punto di vista narrativo cerca la sintesi (l'episodio del seminario, ad esempio, è interamente risolto nei titoli di testa) e l'ellissi, senza attardarsi in stucchevoli e ammiccanti contestualizzazioni storico-ambientali e senza trappole nostalgiche, dal punto di vista stilistico mira alla naturalezza e all'autenticità nelle interpretazioni e alla fluidità delle riprese e del montaggio (si veda l'efficacia ironica della panoramica circolare nella parodizzazione dell'assemblearismo di sinistra), riuscendo a conferire alla storia e ai personaggi credibilità e umanità, tenerezza e umorismo. Più difficile gli riesce giustificare la svolta drammatica della parte finale, dove l'adesione di Manrico alla lotta armata sembra ricalcare un abusato cliché del cinema d'oggi dedicato agli anni ‘70 (imbarazzo marcato dal punto di vista della scrittura cinematografica dalla scena spuria della gambizzazione del dirigente d'azienda, forse l'unica nel film che non ha attinenza diretta al personaggio - narrante - di Accio)» (M. Caron, Segnocinema” n. 146, luglio-agosto 2007).
«Per due terzi del film, Mio fratello è figlio unico sarebbe quella commedia sul Sessantotto (e i suoi dintorni) che il cinema italiano non era mai riuscito a fare: un ritratto più antropologico che psicologico di un giovane in balia delle influenze esterne, non tanto per intima insicurezza o, peggio, troppo facile influenzabilità (la consistenza culturale e politica dei presunti maestri sfiora il ridicolo) ma per "costituzionale" incapacità a pensare con la propria testa e per innata tendenza a voler essere nello stesso tempo bastian contrario e docile al potere. Una specie di ritratto (minimo) del carattere italiano dove si mescolano ansie giovanili e pruriti sessuali (Anna Bonaiuto nella parte della moglie del "federale" è indimenticabile), invidie adolescenziali e azioni da gradasso: tutte caratteristiche che la commedia permette di raccontare con allegria e partecipazione senza per questo evitare né !a cattiveria né la lucidità del ritratto generazionale. Un quadro, però, che finisce per perdersi in un finale cupo e troppo "didascalico", dove la superficialità di Accio rischia di diventare, nemmeno troppo involontariamente, una specie di salvifica qualità morale» (P. Mereghetti, “Corriere della Sera”, 28.4.2007).
 
«II film di Luchetti non è storico né politico: per la prima volta, la divisione politica è un fatto di famiglia. Si spiega l'approdo opposto dei due fratelli con gli opposti caratteri (apparentemente, l'eredità aggressiva è data dalla madre Angela Finocchiaro, bravissima, anziché dal padre mite e cattolico) e le opposte esperienze, le loro vite sono seguite come quelle di ragazzi diversamente idealisti. È un film lieve, spesso divertente, certo non inconsapevole delle perenni lacerazioni italiane. Un po' paternalistico, un poco indulgente e consolatorio, ma ben fatto ed esatto, con una evocazione d'epoca esemplare, per fortuna non affidata prevalentemente alle canzoni» (L. Tornabuoni, “La Stampa”, 20.4.2007).
 
«Commedia popolare, gli anni belli di quando eravamo poveri ma felici e i figli nascevano come funghi in case diroccate ma piene di dignità. Padri operai in tuta blu e madri che rammendano tra i fumi dei fornelli. Un passato glorioso, soprattutto per come lo ha raccontato il nostro cinema e che Luchetti cerca di recuperare con questa pellicola [...]. II ritratto che ne esce è accattivante ma superficiale, retto da una sequenza di battute che fanno bene al cuore e mandano continuamente a ramengo un possibile ragionamento. Luchetti decide di "sporcare" la visione con molta camera a mano, tanto per dare un senso ulteriore di "verità", ma il risultato finisce per essere ancora più ricercato. Un ritratto di un'epoca che si riduce a cartolina, con le belle facce dei suoi protagonisti in primo piano. Dall'affresco senza sbavature sfugge solo, per una certa novità, la prima parte del film, questi primissimi Sessanta» (R. Ronconi, “Liberazione”, 20.4.2007).
 
«Un buon film, addirittura ottimo soppesando le difficoltà proposte dal soggetto. Mio fratello è figlio unico nasce, infatti, dal confronto tra Daniele Luchetti e il romanzo autobiografico Il fasciocomunista di Antonio Pennacchi, che tocca apici di poesia sporcandosi le mani in un grumo di sgradevolezze e miserie umane e ambientali. II rischio era quello d'uniformare le vicende della "peggio gioventù" pre e post sessantottina al pessimo gusto della commedia politica nostrana, in cui la nostalgia suona querula e la faziosità impazza: Luchetti, restando solo in parte fedele al testo come è giusto che faccia un cineasta, riesce invece a cogliere la fatica e il dolore di vivere di personaggi umani-troppo-umani malmenati dalla microstoria quotidiana. Non c'è spazio per facili identificazioni o tifo da stadio: tra i profili littori di Latina e la desolazione dell'Agro Pontino, quello che va in scena è un rozzo duello politico travestito da questione di famiglia e viceversa [...] il film non fa sconti a nessuno e si concentra nella spigliata quanto impietosa descrizione dei luoghi, degli oggetti e dei comportamenti che impastano l'anima e la carne nelle forme di un'Italietta insieme innovatrice, grottesca e minacciosa» (V. Caprara, “Il Mattino”, 21.4.2007).
 
«Hanno nomi antichi e allo stesso tempo popolari i due fratelli, Accio e Manrico: nomi che oggi non si usano più. Così come antico e popolare insieme sembra il film di Luchetti che racconta l'antico (come sembrano veramente lontani quei "favolosi" anni Sessanta!) con un piglio popolare. Un romanzo popolare? Non solo. Più una sorta di fotoromanzo che mescola i colori sbiaditi di una stagione fatta di terital e dei colori slavati delle Fiat 850 o 600, con quelli accesi della rivolta: quelli neri del fascismo e quelli rossi della lotta studentesca e operaia. [...] E se Riccardo Scamarcio è convincente, è Elio Germano che dà al film la giusta scarica elettrica di un personaggio contraddittorio, dolce e forte, maturo e fragile allo stesso tempo. La sua passione focosa è sempre autentica perché prende coscienza che loro, gli ultimi, hanno una possibilità di riscatto nell'assunzione delle responsabilità. Che per lui significherà fare anche le veci del fratello: figlio unico, finalmente riconciliato con se stesso» (A. Frambrosi, “L'Eco di Bergamo”, 14.4.2007).
 
«Rulli e Petraglia, sceneggiatori del film, sanno il fatto loro e in fondo ripropongono, sotto veste di commedia provinciale, certi passaggi che già avevamo amato in La meglio gioventù. Germano e Scamarcio, il fascista e il comunista, sono bravi e convincenti: anche Scamarcio, sì, che dimostra di non essere solo il belloccio della saga mocciana, ma di avere faccia e sensibilità per affrontare tanti ruoli diversi; Luchetti ha ritmo e occhio filologico, capace di cogliere perfettamente i turbamenti di un'epoca confusa e generosa. La storia procede veloce, senza perdere un colpo, la gente in sala è attenta e riconoscente: è tutta musica leggera, come diceva Ivano Fossati, ma la dobbiamo cantare. Grazie alle peripezie dei due fratelli, ritraversiamo un tempo dì giovinezza, speranza e dolore. Le idee e i contrasti si trasformano in pistole e piombo, e la fine è nota e niente affatto lieta. Quel tempo è passato, ma il suo profumo di primavera e di inverno gelato arriva fino a noi, che vogliamo ancora respirarlo, almeno in un film, per capire meglio chi eravamo ieri e chi siamo oggi» (M. Lodoli, “Diario”, 4.5.2007).
 
«II film di Daniele Luchetti [...] viaggia su due piani costantemente intersecanti. Da una parte il mondo privato delle relazioni familiari e personali [...]. È una battaglia tra caratteri che si vogliono bene nonostante le contrapposizioni, riletta attraverso una arguta attenzione ai particolari che fanno Storia comune e al convincente realismo empatico dei dialoghi. Dall'altra la politica, che parte dai '60 e arriva al terrorismo dei '70. Qui però l'operazione funziona meno spedita [...]. Resta ineccepibile la comunicativa dei protagonisti, con un Germano intenso che deve solo dimenticarsi di imitare a volte Mastandrea, e Scamarcio che ha professionalmente un solo nemico all'orizzonte, il culto divistico dei teenager che lo assedia» (M. Lastrucci, “Ciak”, maggio 2007).




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