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ENCICLOPEDIA DEL CINEMA IN PIEMONTE

Cortometraggi e Documentari



La fabbrica dei tedeschi
Italia, 2008, HDV, 90', Colore


Regia
Mimmo Calopresti

Soggetto
Mimmo Calopresti

Sceneggiatura
Mimmo Calopresti, Cristina Cosentino

Fotografia
Paolo Ferrari

Operatore
Alberto Airola, Maurizio Cartolano, Martino Pellion di Persano, Andrea Bessone, Cristina Casentino, Paolo Ferrari

Musica originale
Riccardo Giagni

Musiche di repertorio
Marin Marais, Franco Battiato, Subsonica, Noble/Frederickson/Grimes

Suono
Alessandro Zanon, Remo Ugolinelli, Roberto Gambotto Remorino

Montaggio
Raimondo Aiello

Effetti speciali
Martina Venettoni, Stefano Coccia, Roberto Miele

Scenografia
Alessandro Marrazzo

Trucco
Maurizio Fazzini, Sarah Iannelli

Aiuto regia
Giulia Narcisi

Interpreti
Valeria Golino (Anna), Monica Guerritore, Luca Lionello, Silvio Orlando, Rosalia Porcaro, Vincenzo Russo, Giuseppe Zeno

Ispettore di produzione
Sergio De Giorni

Produttore esecutivo
stripslashes(Beppe Calopresti), Chiara Capparella

Produzione
Simona Banchi, Valerio Terenzio per Gagè Produzioni, Studiouno, Istituto Luce

Distribuzione
Istituto Luce

Note
Operatore steadycam: Franco Robust; aiuto operatore: Piero Bertagna, Simona De Lullo, Diego Vallini; assistente operatore: Riccardo Umetelli, Fabio Ciotto; fotografo di scena: Edoardo Hahn, Fabio Lovino; suono in presa diretta; montaggio del suono: Lilio Rosato, Marco Giacomelli; orchestra: The Etruscan Low Budget Orchestra di Vetralla (VT); direttore d’orchestra: Andrea Rocco Pedana; additional music: Danilo Cherni; assistente al montaggio: Maurizio Cartolano; aiuto scenografo: Mauro Berti; assistente scenografa: Maria Rossi Franchi; assistente alla regia: Giulia Narcisi; organizzazione generale: Chiara Capparella, Andrea Bessone; collaborazione alla produzione esecutiva: Piero Mascitti; assistente di produzione: Giorgio Cugno, Antonella Ragazzi, Renato Chiocca, Eleonora Olivieri, Vincenzo Russo, Matteo Graia Cantamessa; collaborazione alla produzione: Fondazione Rotella.
 
Il film è stato realizzato con il sostegno di Piemonte Doc Film Fund – Fondo regionale per il documentario.




Sinossi
“Docu-fiction” che racconta, attraverso testimonianze e interviste la tragedia della ThyssenKrupp, nella quale persero la vita sette operai nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007. Nel prologo alcuni attori impersonano i parenti delle vittime e rievocano gli ultimi momenti prima della tragedia. Poi vengono documentate le testimonianze su quello che successe quella notte, nelle settimane precedenti e nei terribili giorni seguenti.




Dichiarazioni
«Fino agli Anni 80 la fabbrica veniva disgelata dalle lotte. […] Ora la conoscenza avviene solo attraverso l’economia, la produzione. È venuta a mancare la democrazia dell’immagine della fabbrica: se un tempo erano le lotte sindacali a svelare la realtà, ora sono i sette morti di corso Regina. Così, con il racconto di familiari, amici, operai, mi sono assunto la responsabilità di raccontare la fabbrica, un racconto, ancora una volta, immaginario. Racconto l’incubo di una esistenza, la scoperta improvvisa, anche per loro, di aver vissuto una vita difficile: alzarsi alle 5 del mattino, sottostare agli straordinari per la paura del licenziamento o per guadagnare qualcosa di più in vista del Natale, le pressioni dei dirigenti […]. Tutti hanno accettato la logica di quel tipo di produttività: non solo nel sindacato, ma anche tra gli operai, è passata negli anni l’idea che se non si abbassa la testa di fronte a certi ricatti si rischia di perdere il lavoro. […] Ma tutti, vecchi e giovani, cedono ad  un ricatto più profondo: sanno che dietro ogni discorso sulla vita economica del Paese, sulla possibile crisi congiunturale, è in discussione la loro vita. Dietro la parola “ripresa” – stimolo e speranza di ogni nazione – sanno che c’è esattamente il valore dello sfruttamento: lavorare di più per continuare a sopravvivere. Il Pil è diventato la misura dello loro esistenza» (M. Calopresti, “La Stampa” – TorinoSette”, 12.9.2008).
 
«È un documentario che ha già una contraddizione in sé: c’è sia finzione che realtà. Nelle parole dei familiari, si percepiscono le loro vite. La finzione, però, mi permette di esprimere quel livello sentimentale che non può emergere dalla semplice intervista. La tenerezza del capire u n figlio che non ha più voglia di fare le notti in fabbrica non viene raccontata dalla madre, ma si intuisce, ed è qui che può intervenire il film. Nella parte di finzione c’è l’intuizione dei sentimenti. Il fuoco dell’incidente brutalizza l’animo e riporta alla realtà. Qui inizia il documentario. Un documentario classico, ma non realista; non può esserlo: i protagonisti mancano, sono morti» (M. Calopresti, Il film, in  C. Casentino, La fabbrica dei tedeschi. ThyssenKrupp, RCS Libri, Milano, 2008).





«Dopo aver aperto durevoli visioni sulla disperazione, La fabbrica dei tede­schi si conclude con uno sguardo cieco, un quadro nero che non mostra più niente e sancisce definitivamente l’irraffigurabilità del dramma, l’impossibilìtà di ricostruirlo con le immagini a causa del suo essere inguardabile. Al contrario, entrando in campo e accogliendo i racconti degli intervistati Calopresti recupera l’urgenza dell'ascolto, insiste su un coinvolgimento non più legato unicamente all'osservazione secca, ma in grado di comprendere anche un riferimento diretto ad altri ambiti sen­soriali, oltre che al complesso reticolo delle emozioni. Come traccia ultima delle vittime, infatti, esistono solo le urla mute tra le fiamme e un silenzio atroce (le proteste mai accolte dalla noncuranza dei dirigenti o dall’incompetenza politica e sindacale, l’estrema richiesta di aiuto da parte di due operai durante l'incendio, i vuoti lasciati in famiglia). In tal modo il documentario include un'intelaiatura connessa al concetto di messa in scena: si attua un meccanismo in base al quale prima di assi­stere atta descrizione reale la narrazione dell'evento viene affidata alta recitazione attoriale - che interpreta l'accaduto anticipandone la rico­struzione in chiave testimoniale; inoltre, in virtù di un processo allo stes­so tempo uguale e opposto rispetto al precedente, alla rievocazione con­creta di un episodio particolare (la telefonata al 118) segue la sua immi­nente riproduzione sonora» (I. Moliterni, “Duellanti” n. 46, ottobre 2008).

«[...] La fabbrica dei tedeschi di Mimmo Calopresti, docufiction che sceglie nel prologo di far diventare parenti delle vittime alcuni attori famosi come Valeria Golino, Monica Guerritore, Luca Lionello e Silvio Orlando. Corpi estranei alla tragedia diventano cronaca per permettere al dolore di riverberare con più forza espressiva grazie ai volti forti dei nostri migliori film recenti. Il cinema italiano ci mette la faccia. E Calopresti, memore del suo passato di documentarista civile, realizza un'opera spettacolare ma non sensazionalista. Non era facile. Finale immenso in cui la vera telefonata al 118 di un operaio primo testimone dell'incendio alla Thyssen viene seguita da uno spot su You Tube in cui il gruppo tedesco sembra la società più trasparente e sicura per cui lavorare» (F. Alò, “Il Messaggero, 3.10.2008).

 «Il bellissimo documentario di Mimmo Calopresti, proiettato a Venezia [...] è un modo intelligente per ricostruire una tragedia pubblica ma con grande attenzione ai fattori umani di ogni persona. E il regista torna così a raccontare la sua Torino, la fabbrica dei tedeschi che nella notte del 5 dicembre 2007 ha distrutto molte famiglie e vite umane. Calopresti ricorda con rabbia e affida ad alcuni bravi attori (Golino, Orlando, Guerritore) il compito di calarsi un attimo nei panni dei parenti delle vittime, proprio per non violare la vera privacy. E il senso si allarga, dall' eccidio del rogo alla situazione sociale (orari di lavoro, la spietatezza, le precise responsabilità) con una dose di indignazione che si rivolge ai sindacati e alla smemoratezza collettiva, pronta ad essere ancora usata. Andrebbe visto nelle scuole e, ovvio, in tv. Subito» (M. Porro, “Corriere della Sera”, 26.9.2008).
 
«Magari l’unico modo efficace per parlare della sicurezza sul lavoro è quello di mostrare la realtà umana dietro le cifre e i dibattiti. In questo spirito - introdotto da brevi monologhi di attori come Silvio Orlando, Monica Guerritore, Valeria Golino, nei panni di un padre, una madre e una moglie - il film imbastisce un affresco corale di quotidianità spezzate per dire forte che una fine tanto brutale poteva essere evitata se solo l’impresa fosse stata meno cinica e il sindacato meno succube» (A. Levantesi, “La Stampa”, 12.9.2008).
«Speranze e sensazioni delle vittime ci vengono restituite con una manciata di minuti di fiction interpretati da sette attori [...], il seguito, un po’ troppo televisivo ed enfatico, sono rabbia, sconcerto e testimonianze. Di piccoli sogni di operai spezzati, di una consapevolezza del pericolo soffocata dal ricatto precario del “salario della paura” e del profitto parossistico. L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro e i lavoratori. Vivi o morti» (B. Sollazzo, “Rivista del Cinematografo” n. 10, ottobre 2008).  

«”Mimmo è un amico, ha fatto bene a fare un film sulla Thyssen, però è stato proprio ingeneroso verso quei delegati sindacali che ci provano ogni giorno a salvaguardare i lavoratori; e spesso in condizioni difficili, sotto la minaccia di ristrutturazioni e chiusure”. A Giorgio Airaudo alcune dichiarazioni di Calopresti non sono proprio andate giù. Lui, segretario della Fiom di Torino, la vicenda della fabbrica bruciata l’ha vissuta giorno per giorno [...]. Gli fa eco Giorgio Cremaschi che, nella segreteria nazionale Fiom, segue proprio le tematiche della sicurezza: “Si vuol dire che il sindacato non ha combattuto a sufficienza per difendere le condizioni del lavoro? È vero. Ma evitiamo di trasformare questa debolezza in una colpa primaria, dimenticando chi le crea queste condizioni. Abbiamo fatto un sondaggio ricevendo centomila risposte: la situazione in fabbrica ha raggiunto livelli intollerabili; bisogna tornare a usare una parola ormai desueta: sfruttamento. Vengono da qui i morti sul lavoro e il sindacato sarebbe suicida se accettasse di legare il salario alla produttività”» (S. Marzolla, “La Stampa”, 5.9.2008).

«Ho apprezzato la sincerità e la passione con la quale Calopresti ci consegna il suo docu-film che decostruisce il mito del cantiere moderno, tecnologico e pulito, restituendolo per quello che è: un incantesimo che la tragedia della ThyssenKrupp ha spezzato.  […] La forza del film di Calopresti sta probabilmente nella riflessione attiva, una riflessione seria che non ha appartenenze proprio perché in gioco c’è un inalterabile diritto della persona umana, il lavoro è un diritto in quanto rappresenta una dimensione fondamentale dell’esistenza umana» (E. Viganò, “La Stampa”, 4.9.2008).
 
 «Nel film di Mimmo Calopresti La fabbrica dei tedeschi [...] c’è un urlo che on si può dimenticare, chi l’ascolta ne resterà segnato per sempre. Basterebbe solo quello a dare un senso all’impresa del regista. È l’urlo di Giuseppe Masi, registrato dal118, mentre si consumava la tragedia: “Non voglio morire”. Non volevano morire, le sette vittime dell’incendio della ThyssenKrupp, raccontate sullo schermo dalla voce dei parenti rimasti lì a descrivere brandelli di sogni spezzati, speranze vane» (F. Caprara, “La Stampa”, 5.9.2008).
 
«”Non voglio morire, aiutatemi”. L’urlo straziante di Giuseppe Demasi, 26 anni, squarciava come una lama un’immagine di buio totale. Con questa scena si chiudeva il film La fabbrica dei tedeschi […]. Il tempo passato è d’obbligo. Il regista ha accettato di tagliare il finale che aveva tanto addolorato la madre del ragazzo, spingendola a lanciare un appello affinché venisse bloccata la diffusione della pellicola nelle sale. Prevalgono su tutto la pietà e il pudore. “Ho preso personalmente la decisione di eliminare le terribili grida di aiuto della telefonata al 118 – precisa Calopresti – per rispetto dell’immensa e comprensibile disperazione della signora Demasi”. […] Provengo dal mondo operaio, mio padre lavorava alla Fiat, e l’unico mio obiettivo era e rimane l’esigenza di sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema importante come la sicurezza sul posto di lavoro. […] Ma non voglio ferire persone che soffrono”» (G. Longo, “La Stampa”, 8.9.2008).
 
«Il regista ha accolto la [...] richiesta [di Rosina Demasi] di tagliare l’ultima scena del film La fabbrica dei tedeschi. [...] La decisione di Calopresti rincuora anche i parenti degli altri 6 operai morti a causa del rogo del 6 dicembre scorso, nonostante nessuno di loro si fosse opposto alla scena contestata. A difenderla più apertamente continua Luigi Santino, fratello di Bruno, anche lui arso vivo a soli 26 anni, come Rosario Rodinò. “Quelle rida strazianti avrebbero rafforzato il film – osserva Luigi, anche lui ex operaio Thyssen -, perché così gli spettatori avrebbero potuto rendersi conto fino in fondo dell’inferno in cui eravamo costretti a lavorare”» (G. Longo, “La Stampa”, 8.9.2008).
 
«La fabbrica dei tedeschi (2008), già nel titolo, è indicativa di questa dislocazione in atto. Una rimozione del corpo industriale di Torino che si esplicita nella volontà di chiudere lo stabilimento della ThyssenKrupp di corso Regina Margherita, periferia nord-ovest della città, e di trasferire le linee nelle acciaierie di Terni. La consueta dialettica caloprestiana tra il lodevole passato e l'incerto presente prende corpo nella parole emblematiche di un operaio, che facendo un semplice elenco di tutti gli stabilimenti esistenti all'inizio degli anni '70, momento nel quale iniziò a lavorare, si arrende nel riconoscere, sconfortato davanti ai ritratti dei sette colleghi caduti nell'incendio del 5 dicembre 2007, che di quelle vestigia del passato non resta più niente. Lingotto, Mirafiori, Rivalta, Ferriere e Michelin Dora sono ormai fantasmi di un periodo glorioso esauritosi per sempre, tracce architettoniche - quando ancora presenti - nel paesaggio di una città che vive la sua quotidianità sull'elaborazione di una mancanza, purtroppo incarnata dalla drammatica fine occorsa agli operai della famigerata linea 5 dell'acciaieria che l'imprenditoria tedesca rilevò da quella torinese. Una trasformazione accelerata e conclusa colpevolmente, sottolineata dai volti demoralizzati, consunti e rabbiosi dei familiari delle vittime, tutti concordi nel riconoscere l'inconfutabile verità di una sicurezza ignorata nelle sue norme più elementari. Dall'orgoglio per l'appartenenza alla fabbrica alle funeste morti sul lavoro, anche attraverso questo aspetto passa il mutamento della città. Come se una tetra dissolvenza in nero avesse sancito la fine della civiltà industriale torinese» (G. Frasca, “Quaderni del CSCI” n. 6, 2010).


Scheda a cura di
Franco Prono

Persone / Istituzioni
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