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ENCICLOPEDIA DEL CINEMA IN PIEMONTE

Lungometraggi



Sanguepazzo
Italia, 2008, 35mm, 150', Colore

Altri titoli: Une histoire italienne

Regia
Marco Tullio Giordana

Soggetto
dal libro omonimo di Marco Tullio Giordana, Leone Colonna, Enzo Ungari

Sceneggiatura
Marco Tullio Giordana, Leone Colonna, Enzo Ungari

Fotografia
Roberto Forza

Musica originale
Franco Piersanti

Suono
Fulgenzio Ceccon

Montaggio
Roberto Missiroli

Scenografia
Giancarlo Basili

Costumi
Maria Rita Barbera

Aiuto regia
Barbara Melega

Interpreti
Luca Zingaretti (Osvaldo Valenti), Monica Bellucci (Luisa Ferida), Alessio Boni (Golfiero/Taylor), Maurizio Donadoni (Vero Marozin), Tresy Taddei (Irene), Luigi Diberti (Cardi), Massimo Sarchielli (Guercio), Mattia Sbragia (Alfiero Corazza), Alessandro Di Natale (Dalmazio), Giovanni Visentin (Sturla), Paolo Bonanni (Koch), Gilberto Arrivabene (capitano Arrivabene), Aurora Quattrocchi (contessa), Manrico Gammarota (podestà), Sonia Bergamasco (partigiana prigioniera)

Casting
Barbara Melega

Produzione
Angelo Barbagallo e Eric Heumann per Bi.Bi. Film, Paradis Film, Orly Films, Rai Cinema, Canal Plus

Distribuzione
01 Distribution

Note
Assistenti al suono: Luca Anzellotti, Decio Trani; altri interpreti: Luigi Lo Cascio (partigiano), Marco Paolini (commissario politico), Aden Sheik Mohamed (ambasciatore di Haiti), Paola Lavini (spia dell’Ovra), Danilo Nicola De Summa (Marò al posto di blocco), Giovanni Di Benedetto (medico), Giorgia Barbato (bambina in bicicletta), Mirko Aimar (bambino in bicicletta), Giuseppe Marchese (portiere del Grand Hôtel di Roma), Antonio Carillo (portiere del Hôtel Regina di Milano), Claudio Spadaro (portiere della pensione di Roma), Mario Pegoretti (Silvestro), Stefano Scandaletti (Piero), Marco Velutti (Aldo), Giovanni Bissaca (Achilli), Lorenzo Acquaviva (comandante Borghese), Vincenzo Cutrupi (Mussolini), Marina Rocco (Gioietta), Lavinia Longhi (Desy), Manuela Massarenti (suora sul tram), Gledis Cinque (collegiale sul tram), Adriano Waijskol (primo milite), Giorgio Sangati (secondo milite), Maria Concetta Liotta (cameriera), Stefano Mioni (brigatista Resega), Chiara Borgonovi (signora), Daniele Ferrari (Falieri), Jean Rossi (infermiere), Dil Gabriele Dell’Aiera (partigiano), Giovanni Albanese (produttore), Alessandro Bressanello (direttore dell’Hôtel Ai Dogi), Paolo Riva (partigiano ferito in ospedale).
 
Del film esiste una versione televisiva in due puntate.
 
Locations: Taglio di Po (RO),Venezia, Milano, Torino, Roma, Gaeta (LT).
 
Film realizzato con il sostegno di: Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Film Commission Torino Piemonte, Lombardia Film Commission, Eurimages, Comune di Torino.
 
Premio François Chalais 2008.




Sinossi
Osvaldo Valenti e Luisa Ferida furono tra i più noti attori del cinema italiano nel ventennio fascista, legati anche nella vita privata. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, essi si trasferirono al Nord e aderirono alla Repubblica di Salò. Si stabilirono prima a Venezia, dove girarono qualche film, poi a Milano dove frequentarono l‘ambiente della famigerata banda Koch e si dettero alla borsa nera. Consegnatisi ai partigiani pochi giorni prima della Liberazione, giustificarono i loro traffici con il bisogno continuo di stupefacenti e negarono di aver preso parte alle torture inflitte da nazisti e repubblichini ai partigiani catturati. Ma il Comitato di Liberazione li condannò a morte. I loro cadaveri furono rinvenuti alla periferia di Milano all’alba del 30 aprile 1945, cinque giorni dopo la fine della guerra.




Dichiarazioni
«Non erano colpevoli delle cose di cui furono accusati. Valenti frequentava, è vero, Koch, ma perché quello gli passava la droga che gli era necessaria. […] Non avrei mai voluto trovarmi nei panni di chi ha dovuto decidere del lo­ro destino. Probabilmente anch'io, date le circostanze, avrei scelto la condanna a morte.Si era nella fase in cui punire alcuni simboli aveva la funzione catartica di sal­vare tutti gli altri. Solo col capro espiatorio I’Italia poeva poi guardare in avanti. […] Ebbi I'occasione di parlare con i testimoni diretti, compresi alcuni del plotone d’esecuzione. Da alcuni silenzi, da certe esitazioni, da un modo di abbassare gli occhi, cioè da dettagli che nessun libro potrà mai restituire, mi convinsi del disagio di molti protagonisti. […] Un artista ha l’obbligo di rappresentare ciò in cui crede con la più ampia libertà. Se altri lo usano in mala fede, se ne rendono responsabili. […]  Se gli eccessi, quando cui furono, fossero stati resi noti nel momento di massima efficienza del mito della Resistenza, cioè nell’immediato dopoguerra, il mito stesso non ne sarebbe stato intaccato e avremmo potuto più velocemente voltare pagina senza portarci dietro per troppo tempo i veleni che ci hanno costretto a vivere in una perenne guerra civile. […] Vedo circolare sentimenti di nostalgia, pensieri per cui il fascismo, il nazionalismo, l’antisemitismo, la dittatura possono essere ammissibili. Sarebbe sbagliato sottovalutarli perché, si dice, non ci sono rischi o perché siamo distanti da quell’epoca. Si fa in fretta a degenerare, la vigilanza deve rimanere alta. […] Il film è un viaggio nella biografia individuale di due attori baciati dal successo e ruota attorno a una domanda inespressa ma assillante: perché aderirono a Salò? Avrebbero potuto imboscarsi, come altri colleghi. Invece decidono di andare fino in fondo per quella maledizione scritta nel carattere. Zingaretti ha perso cinque chili per immedesimarsi nell’uomo del tempo, meno rotondo di quanto lui non sia abitualmente. La bellocci ne ha presi tre per il motivo opposto. Lui recita spesso a torso nudo e la fisicità è la sua cifra. Da quando imita il Duce a quando la possiede divagando tra le varie possibilità del Kamasutra, soprattutto quelle che attraverso il sesso alludono al dominio. Il coito deve un tributo alla teatralità e alla disperazione. […] Ogni in­dividuo ha una propria personale memo­ria. Ed è condivisibile solo in quanto la racconta a qualcuno che la ascolta. Ma non si può pretendere che esista una memoria uguale per tutti, è un atro di prepotenza. Per questo esistono gli artisti, per dare vo­ce alle memorie più diverse, per racconta­re le storie. Non la Storia. Quello è compito degli storici. […] Ogni film è decli­nato al presente, persino quelli di fanta­scienza o sulla preistoria portano la data della loro costruzione, contengono i sen­timenti dei tempo. Se cercano di evaderlo per scrupolo filologico falliscono I'obiet­tivo. Nessuno può essere nella testa di persone vissute anche solo l'altro ieri. Bi­sogna essere filologici dal punto di vista formale, perché si forniscono informazioni, com’erano le macchine, le case, i vestiti, i comportamenti sociali, ma lì comincia la libertà dell’artista immerso nel suo tempo» (M.T. Giordana, “L’Espresso”, 15.5.2008).
 
«Vedevo ­La corona di ferro di Blasetti e mia madre dava in escandescenz­e. Le chiesi cosa avesse e lei mi raccontò la vulgata, tutto quello che si era sempre detto su Luisa Ferida e Osvaldo Valenti, che avevano prestato il loro fascino al Regime, aderito a Salò, colla­borato coi tedeschi, lucrato sul mercato nero... Mi sembrò incr-edibile che due attori si fossero ­mescolati con i torturatori, mi colpiva l'oscurità di quella pa­gina, una storia senza catarsi, un melodramma con al centro due figure di cattivi, perdenti. […] Io revi­sionista? Macché. Rimpiangere­te Sanguepazzo, non avete idea di che film revisionisti arriveran­no, altro che Barbarossa. Per molti anni nel nostro Paese la de­finizione di guerra civile fu usa­ta solo dai fascisti, ma era il ter­mine giusto per indicare quello che accadde fra il settembre `43 e l'aprile '45 e che poi continuò a succedere anche dopo. C'era metà del Paese contro l'altra metà. Una fase che non è stata metabolizzata, che non riuscia­mo ad archiviare, ma se non ne parliamo, allora il dolore diven­ta interminabile e non si riusci­rà mai a voltare pagina. Oggi l'onda lunga del conformismo arriverà subito in televisione, siamo tornati alla monarchia, ai governi cortigiani, nel nostro Pa­ese l'opposizione è stata elimina­ta. Ed è una sciagura, anche per i vincitori» (M.T. Giordana, “La Stampa”, 20.5.2008).
 
«A noi attori pia­ce fare ruoli diversi da quello che siamo, difficili, lontani, ruoli che non vogliamo giudicare. In quello di Ferida mi sono lanciata con passione, era un'avventurie­ra, fragile fino all'autodistruzio­ne, per un'attrice un vero rega­lo. Ho guardato le sue foto, il vi­so mi ha ispirato […] Conoscevo il periodo stori­co dai racconti di mia nonna, perciò quando mi sono avvicina­ta al personaggio è stato come se, in qualche modo, lo avessi già incontrato. E poi Ferida è una donna innamorata e io so co­s'è l'amore, la passione, il dolo­re, e quello che può accadere quando un uomo tocca il tasto che ti porterà all'inferno» (M. Bellucci, “La Stampa”, 20.5.2008).





«II film ignora se fossero colpevoli concreti o simbo­lici: il regista ha voluto fare un'opera di fan­tasia ispirata a fatti e personaggi reali. II bra­vo Luca Zingaretti è fuori parte, Monica Bel­lucci è un poco troppo compassionevole» (L. Tornabuoni, “La Stampa”, 23.5.2008).
 
«Giordana […] si è preso molte li­bertà, ha interpretato, sintetiz­zato, tagliato, eluso, aggiunto inventato. Ha usato nel film due piani temporali. Ha considerato i due personaggi con pietas, la­sciando intendere che erano stati fucilati per le voci popolari più che per le loro azioni, ma il non poter stabilire con chiarez­za se fossero o no colpevoli smi­nuisce la tragicità del destino di due persone di per sé irrilevan­ti. Mentre Monica Bellucci va benissimo (magari un po' trop­po crocerossina), il bravo Luca Zingaretti è fuori parte, inade­guato all'istrionismo come al fa­scino luciferino o perverso di Valenti. È bellissima l'ambientazio­ne, l'atmosfera dell'epoca: i colo­ri spettrali dell'inverno, i locali pubblici pieni di mili­tari tedeschi, le strade vuote della città, le stanze d'al­bergo con le fine­stre perennemente chiuse, i set improvvisati, le facce scarne, le strisce di cocaina e le fiale di morfina, le crisi d'astinenza, il dolore, il sen­timento straziante della fine» (L. Tornabuoni, “La Stampa”, 20.5.2008).
 
«Guardiamo le loro vite: lui, uomo bizzarro, cosmopolita, attore brillante oltre che epico, che dopo l’armistizio accetta l’invito della cinematografia di Salò di base a Venezia con la promessa di ruoli importanti. Diventa ufficiale della X Mas, fa uso di cocaina, si trasferisce a Milano dove si imbatte in Petro Koch, aguzzino fascista il cui nome è legato alle atrocità commesse a Villa Triste sui partigiani catturati. Lei, attrice di talento molto applaudita lo segue in tutto e per tutto. Si amano. La leggenda narra anche di festini, di Luisa che balla seminuda davanti ai partigiani per irretirli. Ecco, è una storia esemplare, molto cinematografica, capace di rappresentare un’epoca. Il cinema in questo caso diventa un momento di riflessione su un periodo storico, strumento più acuto di molti altri» (I. Moscati, “La Stampa”, 18.2.2007).
 
Nel 1993 Moscati realizzò per la Rai il film televisivo Gioco perverso i cui protagonisti, nei ruoli di Valenti e Ferida, erano Fabio Testi e Ida Di Benedetto. «Piacque a critica e pubblico, ma si discusse molto sull’opportunità di parlare o meno di questa vicenda controversa: il buon cinema ha dimostrato invece come si possano raccontare storie non condivise da tutti con occhi disincantati, senza pregiudizi. […] Parlare del passato permette di guardare in controluce alcune vicende storiche, riflettere sui percorsi, riconoscere l’ibridismo che da sempre esiste tra spettacolo e politica» (Ibidem).
 
«[…] a mano a mano che il film di Marco Tullio Giordana scorre sullo schermo, sembra di sentir respirare e pulsare e stridere e sorridere - come in una sinopia in continuo movimento - le immagini che lo hanno generato, quelle che lo hanno eccitato e sollecitato, quelle che gli hanno fatto da modello. Prima - nel bianco e nero accecante che apre e chiu­de la storia - avverti tutto l'amore del Neorealismo per la realtà, con quella pellicola srotolata sulla nuda terra, e trascinata via da due bambini che sembrano usciti da Germania anno zero, o da Sciuscià. Poi senti l'eco del cinema di Blasetti, e la suggestione di quello di Visconti. Ma anche, inaspettatamente, la forza urlante di certi primi piani di Ejzenštejn, nella scena in cui Sonia Bergamasco - la prigioniera - grida la sua rivolta, il suo odio e la sua rabbia dalla cella di Villa Triste del mostruoso torturatore filo-nazista Pietro Koch. Ma poi il riferi­mento che si impone su tutti è un altro: lo percepi­sci sottopelle fin dall'inizio, ti chiedi a quale film assomigli davvero Sanguepazzo, afferri qua e là, un po' a caso, frammenti e lacerti da immagini già viste, e a un certo punto, all'improvviso, lo vedi.
È Il conformista di Bernardo Bertolucci, il modello - poco importa quanto esplicito e consapevole - del film di Giordana: lo è nella dislocazione del raccon­to su due piani temporali diversi, nell'uso delle luci, nella tavolozza cromatica, nella sensibilità dark che lo pervade. Lo è nell'impasto indissolubile di bene e male, nella voglia di trasgressione che sfocia nel­l'adesione conformistica ai modelli dominanti, nella pervasività del tradimento e della menzogna. Come Il conformista, anche Sanguepazzo è un mélo che sceglie la formula del "romanzo storico" come modalità dominante di messinscena e di rappresen­tazione» (G. Canova, “Duellanti” n. 43, giugno 2008).
 
«Fra sadomasochismo e Fascismo esiste una salda­tura quasi ovvía. Marco Tullio Gíordana ne è consa­pevole al punto da lasciare sullo sfondo dell'intero film questo intreccio. Ma perché sullo sfondo? Forse perché troppo occupato a celebrare la mise­ria, la furbizia, l'arte di sopravvivere di una coppia di attori che ha perfettamente compreso che “il Fascismo è teatro” (Genet) e si comporta di conse­guenza (Valenti è un mattatore sullo schermo e fuori; Ferida un simbolo incosciente di erotismo). Il gusto della vita, la "follia" dell'arte sembrano i para­venti ideali dietro cui nascondersi per giustificare ogni scelta. Ma ogni finzione è destinata a cadere quando ci si confronta con la carnalità, che non mente mai. Il dato sessuale è privo di energie libe­ratorie, torna su se stesso in un circolo vizioso senza sbocco» (M. Rota, “Duellanti” n. 43, giugno 2008).
 
«Sanguepazzo è il prequel de La meglio gioventù. È un romanzo anche questo, che precede l’altro ambientato fra gli anni Sessanta e gli Ottanta, nell’Italia repubblicana postfascista. Anche qui due uomini e una donna, ovvero Luisa Ferida innamorata di Valenti, divo del fascismo come lei, e del regista intellettuale Golfiero, poi partigiano. Come i fratelli Matteo e Nicola, e poi Giorgia, la ragazza psicolabile che segnerà la vita di entrambi, ne La meglio gioventù. Durante il fascismo e la guerra, però, la gioventù è perduta in partenza. Al suo posto resta l’infanzia: l’Italia fascista, in questo film [...] è un’Italia tutta infantile, fatta di bambini che giocano col denaro, col sesso, con la guerra. [...] Che gli anni 1936-1945 costituiscano la matrice dell'Italia contemporanea è provato dalla splendida cornice nar­rativa di cui il film si riveste. Due bambini, sporchi e macilenti, esponenti di un'infanzia ben diversa da quella pre bellica, muniti di neorealistica bicicletta, individuano tra le macerie una bobina cinematografica srotolata. Iniziano a seguire i fotogrammi.e arri­vano fino ai cadaveri di Ferida e Valenti. È una citazione freudia­na, il fort-da, il bambino che gioca a sfilare e raccogliere il gomi­tolo di lana per ricostruire, sul piano simbolico, il rapporto con la madre assente. I cadaveri dei due amanti diventano così la Scena Madre della nuova Italia, l'enigma su una idea, cupa e sommaria, di giustizia che si srotola, come la pellicola abbandonata, lungo gli anni della storia repubblicana. Sanguepazzo è un film fondato su un'idea pedagogica del ci­nema, oggi del tutto dimenticata. Rappresentare, mettere in sce­na un nucleo narrativo che rivesta anche una funzione didascali­ca, di insegnamento, in questo caso, su ciò che si dice l'identità na­zionale. La forma per raccontare è certamente quella del roman­zo cinematografico. […] La forma ro­manzo, allora, richiede uno spettatore che non faccia perno sola­mente sulla dimensione superficiale, almeno oggi, del gusto. Chie­de piuttosto uno spettatore coscienzioso del mito, ovvero del nu­cleo profondo della narrazione romanzesca che oscilla tra la superficie del testo e l'intrico del sotto testo» (F. De Berardinis, “Segnocinema” n. 152, luglio-agosto 2008).
 
«Marco Tullio Giordana porta a compimento un progetto nato – almeno a livello ideale – sul finire degli anni ’70: l’intento, nemmeno troppo celato, è quello di raccontare in maniera meno semplicistica perché Valenti e la Ferida […] dovessero dare il buon esempio a tutti pagano con la morte. Revisionista, obietterà qualcuno, ma il vero problema è altrove: in quella circolarità del racconto che non sfugge alle logiche didascaliche di certe opere tv, appiattendo dove bisognerebbe evocare, esagerando dove invece sarebbe meglio sussurrare» (V. Sammarco, “Rivista del Cinematografo” n. 6, giugno 2008).
 
«Per ristabilire la verità, era sufficiente raccontarla. Giordana forse esagera nel rendere romantici i protagonisti, ma lo fa per due motivi. Il primo, fare di Valenti un italiano “tipico”, geniale e opportunista, tronfio e fragile, cinico e generoso; un coacervo di contraddizioni che la strepitosa interpretazione di Zingaretti esalta in modo convincente. Il secondo: raccontare il cinema in tempo di guerra, l'ambiguità connaturata al suo essere arte e industria: il confine sottile, per un artista nelle pieghe della storia, fra rovina e grandezza. Se si riesce a leggere Sanguepazzo in questa chiave, scordando i veri Valenti & Ferida, l'apologo è potente, e per nulla revisionista. Al contrario: il dramma del partigiano Vero, costretto a fucilare i due, è anch'esso fin troppo romanzato. Nella realtà, la sentenza fu eseguita per motivi più terra terra: soldi, pellicce, gioielli. La guerra è molto più spaventosa del cinema» (A. Crespi, “l'Unità”, 20.5.2008).

«Le storie di Ferida e Valenti sono assai liberamente recuperate e quello che esce fuori, prepotente, non è il ritratto di una coppia di fascisti, ma di un'intera epoca, di un intero paese. Per questo ci risultano inopportune le polemiche sul carattere "revisionistico" o meno del film. Il suo cuore, infatti, non è tanto rappresentato dalle passioni e gli steccati politici, quanto dal ritratto di un'Italia in cui il conformismo più o meno imposto, l'impoverimento culturale oltre a quello economico, la disillusione e la disinformazione furono terreno di coltura per la dittatura fascista. Ritratto quindi che, molto più della verità presunta sulle colpe di Ferida e Valenti, riguarda il nostro presente. Giordana è quindi riuscito a fare di questa storia lontana l'unica cosa che valesse la pena. E lo ha fatto intingendo la sua pellicola nei colori e nelle emotività proprie di quell'epoca» (R. Ronconi, “Liberazione”, 30.5.2008).
 
«L'intento è educativo-morale, e non critico-storico. Ma credo che non si possano mai scindere i due piani, a meno che (nelle coproduzioni Rai è dogma imposto) non si voglia confermare la storia ufficiale, degradando l'immaginario storico a ingiudicabile “teatrino privato”. Ma Giordana forse ci vuol solo ammonire, usando il film come pretesto: guardiamoci dentro, scrutiamo la parte dark di noi, i nostri orrendi difetti, come quello di innalzare e glorificare qualcuno alle somme vette (Mussolini) per poi goderne di più l'orrenda caduta. Chiede un esame di coscienza, per esempio, al nostro corpo elettorale e stimola i suoi sensi di colpa?» (R. Silvestri, “il manifesto”, 20.5.2008).
 
«Finalmente. Era ora di frugare nella piaga della caduta del fascismo con tutto il suo corteo di fantasmi. Era tempo di raccontare la parabola maledetta di Luisa Ferida e Osvaldo Valenti senza temere manipolazioni da destra né anatemi da sinistra. Ed è bene che a farlo sia un uomo non certo sospetto di revisionismo come Marco Tullio Giordana. Certi personaggi infatti sono così significativi che se non fossero veri andrebbero inventati. O almeno "completati", anche usando l'immaginazione. Come fa Giordana in Sanguepazzo rievocando con molte licenze la fine di questi due divi di regime, fucilati dai partigiani nell'aprile 1945. Non per riscrivere la Storia, ma per illuminarne le zone d'ombra con un'ipotetica "controstoria"» (F. Ferzetti, “Il Messaggero”, 30.5.2008).
 
«Marco Tullio Giordana parte da quelle ultime ore della "coppia maledetta" del cinema fascista, per poi andare a ritroso, scoprendo insieme la scelleratezza delle loro scelte (soprattutto quelle di lui) e l'inesorabile corso di un destino orribile. Chiama il film Sanguepazzo, riprendendo il titolo di una pellicola che Valenti aveva in mente ma non riuscì mai a completare: così facendo dà un'interpretazione del suo personaggio. Non un eroe, certo, ma nemmeno (forse) quel boia legato alla X Mas e, soprattutto, alla famigerata banda Koch, che torturava sadicamente i patrioti milanesi. Un uomo che viveva in un mondo tutto suo, aiutato in questo dalla totale dipendenza dalla droga. Un po' guascone e del tutto privo di freni inibitori, donnaiolo impenitente, dotato di un fascino particolare. Incapace, nel momento decisivo, di fare la scelta dovuta, trascinando nella disgrazia una donna probabilmente molto meno colpevole di lui» (L. Paini, “Il Sole 24 Ore”, 1.6.2008).
 
«Sanguepazzo si prefigge di sciogliere - sia pure con cautela cerchiobottista - i nodi più oscuri della vicenda che chiamano in causa l'adesione popolare al fascismo, la sciagurata epopea della Repubblica di Salò, i caratteri della guerriglia partigiana e delle due anime (quella comunista e quella nazionalista) in conflitto all'interno di essa. La ricostruzione a bagnomaria tra storia e invenzione è, però, assai di maniera, la catena degli episodi enfatica e didascalica e l'inevitabile tocco “poetico” d'autore alquanto invadente: handicap ancora trascurabili rispetto a quello della mancata qualità evocativa dei protagonisti. [...] Giordana vorrebbe farci capire come i patetici amanti, fucilati a Milano da partigiani dopo lo scempio di piazzale Loreto, fossero stati in realtà “uccisi” dalla stessa Italietta piccolo borghese che ne aveva subito il fascino più scandalistico che divistico; ma il lodevole intento è frustrato da espressioni, dialoghi e situazioni decisamente “finti”» (V. Caprara, “Il Mattino”, 20.5.2008).
 
«Se e quanto fossero coinvolti in queste atrocità non è mai stato chiarito, ed è piuttosto credibile il ritratto che Marco Tullio Giordana fa di Valenti bastian contrario ed esteta decadente, esagitato, immaturo, provocatore, trascinato dal suo dannunzianesimo in un'avventura autodistruttiva. [...] Giordana, che ha nel cassetto da più di vent'anni la sceneggiatura scritta con Enzo Ungari e Leone Colonna, non è nuovo a queste imprese; nel 2003 a Cannes prese il volo La meglio gioventù. Meno appassionato e straziante del film del 2003, Sanguepazzo è interessante soprattutto nella descrizione di un carattere nazionale ribelle e narcisista ma debole di pensiero, eroe di cause sulle quali non s'interroga e perciò incapace di autodeterminazione e preda facile di dipendenze. Allora come oggi» (E. Martini, “Il Sole 24 Ore”, 20.5.2008).
 
«Al di là della storia di Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, star maledette del cinema mussoliniano, “depravati” ma accettati da un regime che sapeva nascondere bene la polvere sotto il tappeto, il nuovo film di Marco Tullio Giordana offre una serie di spunti per ragionare e riflettere sullo stato delle cose di ciò che una volta si chiamava Settima Arte e su ciò che, oggi, ci troviamo di fronte quotidianamente: il rapporto tra realtà e finzione. [...] Quello che conta, ci dice Giordana, è il punto di vista, dove ci mettiamo e come ci poniamo. La cronaca, che ha la sua simpatica importanza, può essere travisata, anche di fronte a prove regine. E la cinepresa (ora diremmo: la telecamera) è una meravigliosa e/ma pericolosissima macchina da guerra. Ne abbiamo conferma nella scena (geniale) dell’attore-regista Valenti nelle agghiaccianti celle dei partigiani arrestati dalla polizia di Koch (che seminò il panico nei giorni precedenti la Liberazione), con una Sonia Bergamasco (uno dei tre camei d’autore del film assieme a quelli di Luigi Lo Cascio e Marco Paolini) che in pochi secondi dimostra cosa voglia dire essere un’attrice, e ci aiuta a decifrare il limite di un qualunque obiettivo. Come i petali di pioggia usati come un tormentone, il cinema (ieri) e le immagini (oggi) possono aiutarci a capire e, al contempo, macchiare di sangue la neve, la nostra purezza di spettatori purtroppo non più vergini» (A. Fittante, www.filmtv.it).
 
«Marco Tullio Giordana a cru pouvoir évoquer à la fois une page de l'histoire du cinéma italien et les heures sombres de son pays à l'époque du fascisme en retraçant l'existence de deux stars au destin tumultueux: Osvaldo Valenti, drogué et collabo, et Luisa Ferida, sa maîtresse, compromise ipso facto. Etaient-ils réellement coupables, jusqu'où et pourquoi ont-ils fréquenté trafiquants et tortionnaires? Ont-ils été victimes de l'image reflétée par leurs rôles à l'écran, celui d'un arrogant dissolu pour lui, celui d'une arriviste libertine pour elle?» (J.L. Douin, “Le Monde”, 9.7.2008).

«Modern Life could be a default title for just about any Cannes film. When Sean Penn, the president of the jury, predicted at a press conference last week that the winner of the Palme d’Or would be a filmmaker “very aware of the times in which he lives”, he did not narrow the field very much. Period movies are fairly rare here, and the glossy tedium of Marco Tullio Giordana’s Sangue pazzo - in which Monica Bellucci plays an ill-fated movie star of the Fascist era - might make you wish they were rarer still.  While Italian cinema has hardly sunk to the wartime depths depicted in Mr. Giordana’s film, it has fallen a long way from its postwar glory days, and in recent years Cannes has been something of a showcase for this new wave of mediocrity. There have been exceptions, notably The Best of Youth, Mr. Giordana’s splendid six-hour baby-boomer epic» (A.O. Scott, “The New York Times”, 20.5.2008).




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