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ENCICLOPEDIA DEL CINEMA IN PIEMONTE

Cortometraggi e Documentari



Olga e il tempo. Parte prima: epica minima del mattino
Italia, 2007, MiniDV, 56', B/N


Regia
Manuele Cecconello

Fotografia
Manuele Cecconello

Operatore
Manuele Cecconello, Claudio Pidello

Musiche di repertorio
Arvo Pärt, Alfred Schnittke

Montaggio
Manuele Cecconello



Produzione
Prospettiva Nevskij, Biella

Note
Documentario girato il 26 giugno 2006, dalle ore 5,30 alle 10. Ultimato nel febbraio 2007.
Location manager: Claudio Pidello; consulenza al montaggio: Enrico Terrone; assistenza tecnica: Riccardo Giletta.
 
Location: Valle Elvo, Alpeggio “La Pissa” (Biella).
 
Premio per il miglior lungometraggio documentario al Flahertiana International Film Festival 2007 di Perm, Russia.
 
Olga e il tempo. Parte prima: epica minima del mattino è il primo momento di una trilogia di cui fanno parte anche: Olga e il tempo. Parte seconda: equinozio del pomeriggio (girato il 27 giugno 2007, 75’) e Olga e il tempo. Parte terza: elegia della sera (girato il 27 giugno 2008, 50’).




Sinossi
L’amore per la montagna, una devozione simbiotica con la natura, una dignità salda fondata sul lavoro, rappresentano il mondo di una donna, Olga Valcauda, che alleva mucche da latte nella Valle Elvo, a nord ovest di Biella. È figlia unica e ha una quarantina di anni. Vive da ottobre a fine aprile nella cascina di famiglia a Sordevolo, insieme con l’anziana madre. Da maggio si trasferisce con la mandria all’alpeggio e vi trascorre sei mesi di lavoro e solitudine. Seguiamo Olga dall’alba fino alle 10 del mattino, allorquando un paio di chili di burro e la forma di formaggio tipico (la toma) riposano messi in serbo al fresco quale frutto del lavoro della giornata.




Dichiarazioni
«L’aspetto quasi liturgico delle immagini che mi si sono parate davanti, l’evenienza temporale densa, quasi corporea della gestualità e del ritmo di lavoro cui ho assistito, mi hanno indotto a realizzare un “surplus” di sacralità del mio approccio visivo alla materia. Da qui la volontà di rendere come rituale l’appuntamento con la giornata di Olga, ripartendo in tre fasi le riprese, mattino, pomeriggio e sera, per estendere la portata fenomenologica e approfondire una storia minima fino ad identificarne e elevarne li aspetti universali. [...] Il tempo lo si rappresenta alla lettera. In forma diretta, senza artifici narrativi che gli diano una polarità aggiunta e eterodiretta. Il tempo si direziona da sé, inesorabilmente. Il cinema consente di osservare il tempo e con il tempo medesimo permette di creare una nuova forma, o meglio una particolare oggettivazione della nostalgia e del desiderio, dello strascico melanconico, della deriva dell’autopercezione. [...] Un organismo – il cinema – votato ala gestione di permanenza e transitorietà, rendendo visibile il tempo e sensibili la sua forma e la sua persistenza ottico-mnestica. È come se il cinema ponendo il “trascorrere” come suo movente donasse alle cose che “vivono” dentro di esso un senso particolare del mondo, una presenza solida, quasi corporea del tempo come costituzione e sensazione» (M. Cecconello, in S. Claudio, L’individuo, il tempo, le radici. Valore sociale del documentario di montagna  in un’epoca globale, Tesi di Laurea, Dams Università di Torino, 2008).
 
«Ci recammo all’alpeggio di Olga per la prima volta il 27 giugno 2006. La donna ci diede appuntamento alle 5.30, in tempo per riprendere la lavorazione mattutina del burro e della toma, il formaggio tipico. Eravamo all’alpe “La Pissa”, valle Elvo, 850 metri, sopra al paese di Sordevolo, il cuore verde del Biellese. Cercavo immagini generiche della caseificazione artigianale che ancora si pratica da quelle parti. Trovai un mondo calato in una dimensione temporale parallela. Dopo pochi minuti mi lasciai guidare dal tempo di Olga per cadere dentro me stesso e ritrovare la Storia» (M. Cecconello, http://filmprospettivanevskij.blogspot.com).
 
«Le tre parti di cui si compone il documentario raccontano una giornata qualsiasi – il 27 giugno – di Olga Valcauda, pastora del Biellese. Girato in tre anni consecutivi – 2006, 2007, 2008 – il film lascia scorrere la vita di Olga con il suo metodico operare come se ogni istante replicasse un granello di eternità. Dalla trasformazione del latte al pascolo delle mucche, dalla manutenzione della proprietà alla mungitura, dalla preparazione del pranzo alla realizzazione del sapone artigianale (per mano dell’anziana madre Elisa), dalla pulizia della stalla alla cena e al riposo, la quotidiana epica di questa donna quarantenne e sola viene intagliata in un bianco nero sgranato e profondo, come nelle fotografie amatoriali degli anni’70, e la millenaria vicenda del mondo contadino si fa ritratto intimo, minimale vibrazione alla ricerca di verità antiche e immanenze eloquenti. La trilogia nasce senza progetto. L’autore non conosceva la protagonista. Non vi sono state ricerche né sopralluoghi. Le cose si svolgono davanti alla camera come se fosse la prima volta.
Olga e il tempo è la testimonianza di una scoperta: quella dell’autore nei confronti della propria poetica. E, infine, questa poetica parla agli uomini e tramanda il tempo di Olga.
L’epopea di Olga si consuma così: in silenzio e solitudine, seguendo un ritmo ferreo staccato sul levare del sole. I gesti scandiscono un sapere intatto, il tempo stilla su di un orologio naturale. Il tempo necessario alle vacche per pascolare, il tempo per la giusta cagliata, il tempo per la bollitura, il tempo della colazione, il tempo del siero che cola dalla forma di formaggio compiuta. E la fatica intaglia nell’aria una sacra ineluttabilità. E, insie-me, la sua contraddizione. Ha scelto Olga il suo destino? È la solitudine dei mesi estivi una dimensione appagata o un dovere trasmesso geneticamente? L’ombra della tradizione famigliare è per lei, figlia unica, una guida o una catena? L’eredità del padre (l’alpeggio, la terra, gli animali…) è ciò che Olga attendeva dalla vita? Olga traccia il segno dell’uomo sulla natura come era all’inizio: ad impatto nullo. Ogni gesto, materia, azione, strumento sono calibrati in un progetto di completo equilibrio tra le parti. L’attento cane Baldi, le mucche e Olga pari sono dentro una società dagli intenti dichiarati, dai diritti garantiti. Il latte, l’erba vigorosa, l’acqua di fonte – incessante, e, dopo, il burro saporito, la toma fragrante di latte e fuliggine, sono un DNA ritornante, imperituro. Sono la sempiterna tabella degli elementi della civiltà contadina. Olga non è sovrana né invasore di questo Eden minimo; è la garante di un’armonia dovuta, di un destino circolare. Olga fa da testimone fedele al tempo indifferente della Terra.
La musica sacra e moderna, il bianconero sgranato e vignettato sono la risposta del regista al senso del tempo costruito dalla donna e dalla natura. Una eternità molle, una circolarità involontaria richiamano alla macchina da presa un sospeso protagonismo, una volontà significante per dare corpo e densità ottica all’ineffabile mutevolezza del corpo, alla minima coreografia dei gesti, al disegno incantato del paesaggio. L’autore vede nelle ventiquattro ore di Olga un moto universale, una orologeria fine che conta i gradi di inquietudine e desiderio là dove regna silente l’apparente stolidità della mucca, il lento ondeggiare del fogliame, la nube che scorre sui tetti di pietra.
Pur nella sua consanguineità con la Natura, Olga si accomuna all’umano dibattersi che cerca di fuggire. Giù in pianura, alveo di autostrade e metropoli, regna un caos inconsapevole che ha eletto la velocità come potere assoluto. Olga risponde con la dignità di un eremitaggio ereditato, l’assiduità di una simbiosi con il respiro della Terra. La donna conosce in fondo la sua Scelta, e la vive con l’accettazione lenta, con la cura per la sua misura definita. Il film domanda infine: è questa una forma nobile di rassegnazione? C’è un senso tragico nell’atarassia del volto di questa donna? Si tratta di disincanto? Dio c’entra qualcosa?
La trilogia di Olga vuole essere un film sul Biellese ancora rurale, sulla necessità di fare memoria attiva della scomparsa civiltà contadina e del suo inestimabile retaggio. Sul finire del 1700 questa ascosa parte di Piemonte ha dato i natali all’industria tessile nazionale; la globalizzazione incalzante ha sconvolto i mercati al punto da far vacillare la vocazione industriale del Biellese, oggi al centro di una crisi di trasformazione di particolare entità. Gli Enti Locali hanno avviato da quasi un lustro un novero di iniziative volte a collocare cultura e creatività al centro di un ampio movimento di interpretazione del cambiamento e di valorizzazione del territorio. Olga e il tempo vuol essere la risposta artistica a queste istanze; la vita quotidiana di una pastora nascosta e silente – e depositaria di un sapere granitico ed emblematico – può costituire un anello di quella catena virtuosa che cinge e garantisce l’unicità di un territorio, l’elevazione delle eccellenze a cultura di comunicazione, il motore per la diffusione di valori affettivi intorno ad un paesaggio caratteristico. L’eredità che Olga rappresenta è il viatico per un viaggio nel tempo alla riscoperta dell’identità di tutta una comunità: da quei medesimi monti popolati di uomini e animali si dipartono i ricchi corsi d’acqua che hanno costruito l’industria della modernità» (M. Cecconello, http://filmprospettivanevskij.blogspot.com).





«Olga e il tempo segue la regola principale di ogni racconto cinematografico – indagare la relazione fra un personaggio e un mondo – introducendo tuttavia un’importante eccezione. Il mondo di Olga è abitato da cani, mucche, alberi, montagne, ma da nessun altro essere umano. La realtà con cui l’eroina si confronta non è una realtà sociale, fatta di leggi, linguaggi, codici, convenzioni: essa si offre esclusivamente nella sua materialità, nella sua concretezza sensibile; quindi, anzitutto, nella sua forma essenziale di spazio (la casa, la stalla, il cortile, il pascolo, il paesaggio della Valle Elvo) e di tempo (lo scorrere fluido e laborioso delle ore, dalle cinque e trenta alle dieci del mattino). [...] Lo sguardo cinematografico si accosta a Olga e al suo mondo con pudore, con timoroso rispetto; ma al tempo stesso questo sguardo si fa discorso, nel tentativo di svelare la ricchezza di senso racchiusa in un universo all’apparenza così semplice, così monocorde. La solennità del bianco/nero e la magniloquenza degli interventi musicali trasferiscono la vicenda di Olga su un piano quasi astratto di stilizzazione poetica, che si pone in vibrante dialettica con la materialità del dato originario. Il cinema cerca di far valere il proprio linguaggio in un mondo che sussiste indipendentemente da qualsiasi linguaggio, dal qualsiasi artificio: Olga si muove nel suo spazio con una naturalezza sovrana, senza mai badare alla macchina da presa che la sta riprendendo, come se questa fosse collocata in una dimensione parallela a lei del tutto estranea. Vi sono tuttavia alcuni istanti, senz’altro fra i più straordinari del film, nei quali sembrano aprirsi piccole faglie nell’eremo di Olga, nella sua pacifica indifferenza al linguaggio e alla società. Un breve sguardo in macchina, accompagnato da un lieve sorriso; oppure i gesti precisi, calibrati con cui la paletta di legno dà forma al panetto di burro, scrivendoci sopra una greca che rappresenta una sorta di firma» (E. Terrone, “Segnocinema”, in http://filmprospettivanevskij.blogspot.com).
 
«La vita di Olga ruota costantemente intorno al perno della ritualità delle sue azioni quotidiane che, per quanto ripetitive, non sono mai vuote. Le sue mani sono depositarie di un modo di vivere e di concepire il Tempo: sono mani pazienti che lavorano con la calma e la minuzia necessaria per ottenere sempre un buon risultato. [...] Anche i suoni, così come le immagini e i profumi, sono strumenti utili per dare identità e riconoscibilità ad un ambiente: il secchio del latte, il fieno, la falce che taglia l’erba, i campanacci delle mucche, sono simboli che rimandano immediatamente alla montagna e che non vano soltanto visti, ma anche ascoltati. Cecconello ha la capacità di creare sinestesie e, avvalendosi del sonoro, di sollecitare percezioni sfaccettate in chi guarda: il profumo del fieno e quello del latte appena munto non possono essere riprodotti dal cinema, ma in questo modo possono comunque essere restituiti allo spettatore in forma evocativa. [...] Se il suono, dunque, veicola informazioni e sensazioni non necessariamente temporali, allo stesso modo l’immagine non dà indicazioni esclusivamente spaziali. Lo sgranato scelto da Cecconello per il suo film, infatti, così come il colore, comunica a chi guarda prima di tutto il senso del Tempo, perché sembra voler sradicare Olga dal contesto e dal tempo reale nei quali è inserita, per sospenderla in un Tempo indefinito che potrebbe essere molto vicino, ma anche molto lontano» (S. Claudio, L’individuo, il tempo, le radici. Valore sociale del documentario di montagna  in un’epoca globale, Tesi di Laurea, Dams Università di Torino, 2008).

« La prima parte Epica minima del mattino rappresenta una mattinata, dalle 5.30 alle 10. In questo breve lasso di tempo le operazioni svolte dalla protagonista sono innumerevoli, seguite in un ordine preciso, secondo uno schema collaudato, forse da secoli. La produzione del burro si alterna a quella della toma ed entrambe alle operazioni di pulizia della stalla, di preparazione del pascolo, di accompagnamento delle mucche al pascolo stesso. La solitudine non è certo la dimensione naturale di questo mondo. Olga si muove tra vari fabbricati che un tempo erano abitati da una piccola ma certo rumorosa comunità di persone e di animali. Ora la comunità è composta solo da Olga e dai suoi animali con i quali il rapporto appare stretto, consolidato nel rispetto e nella conoscenza reciproca. Le mucche - mucche splendide, vere, agli antipodi dalle “macchine da latte” che troppo spesso si vedono oggi anche in montagna - escono e rientrano da sole dalla stalla senza nessun bisogno di essere incitate. Ognuno (la donna ma anche i suoi animali) sa cosa fare, come muoversi. Nessuno perde tempo ma il tempo scorre secondo un ritmo diverso dal tempo sincopato, incalzante che oggi domina anche negli alpeggi. […] Anche se la dimensione del tempo è quella che costituisce il centro dell'opera non si può non fare a meno di essere colpiti da un'altra dimensione: la manualità: gli attrezzi sono quelli tradizionali, semplicissimi, fatti in proprio, quasi sempre in legno. Tutto viene fatto a mano, con cura e pazienza, naturalezza attenta, proprio come un tempo. La pienezza del tempo che non lascia spazio a soste (quante ore per lavorare un secchio di latte!) è legata ad una manualità esasperata. […] L'insediamento popolato da Olga e dai suoi animali appare come “congelato”; non vi sono le tante superfetazioni quasi ovunque presenti su alpeggi e maggenghi, pare che il tempo si sia fermato. Pare, perché i segni del tempo si vedono, inesorabilmente; tutto “tiene” ma per quanto? I canali di gronda sono rotti e tante sarebbero le piccole e gran di manutenzioni da fare. È, evidentemente una realtà a termine. Olga è ancora giovane e robusta, ma per quanti anni? Eppure il quadro non è di struggente nostalgia e di compiacenza necrofila per l'ultimo scampolo di un mondo che non si è accorto di essere già da tempo trascorso. […] Piccole ma grandi lezioni ci consegna l'Olga di Cecconello, che ci ha messo la sua tecnica e la sua sensibilità nella fotografia e nell'inquadratura (sempre rispettosa del soggetto) al servizio di una narrazione lineare in cui realismo e epica sono sapientemente bilanciati» (M. Corti, http://filmprospettivanevskij.blogspot.com).



Scheda a cura di
Franco Prono

Persone / Istituzioni
Manuele Cecconello


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