Regia Francesca Comencini
Soggetto Francesca Comencini, Michele Astori
Sceneggiatura Francesca Comencini, Michele Astori
Fotografia Valerio Azzali
Musiche di repertorio Edoardo Vianello, Ida Kelarova, Chat Noir
Suono Antonio Dolce, Daniela Bassani, Marzia Cordò
Montaggio Massimo Fiocchi
Aiuto regia Emanuele Svezia
Produzione Off Side per Rai Cinema e Rai Teche
Distribuzione Rai Cinema
Note Ricerche d’archivio nelle Teche Rai: Giancarlo Biondi, Laura Demetri; fotografia immagini Brembo: Valerio Azzali; brani musicali: Tremarella (C. Rossi, G. Alicata, E. Vianello), Kusiyavana e Akalari Bomba (Ida Kelarova), Via del Campo (F. de Andrè, E. Jannacci); suono in presa diretta; montaggio del suono: Daniela Bassani, Marzia Cordò; assistente al montaggio: Chiara Vullo, Stefano Mariotti; assistente alla regia: Emanuele Svezia; organizzatore di produzione: Paolo Rivieccio; coordinatrice della produzione: Karin Anell; amministratrice di produzione: Hanna Buhl.
Hanno collaborato alla realizzazione del documentario: Giovanni Martellozzo, Alberto Fasulo, Luca Fogagnolo, Carlo Calende, Daniele Ranieri, Aris Accorsero, Ufficio Risorse Umane e Operai della Brembo S.p.A.
Il materiale d’archivio proviene da: Rai Teche, Archivio Audiovisivo Movimento Operaio e Democratico, Archivio Nazionale del Cinema d'Impresa di Ivrea.
Il film termina con una didascalia: “a mio padre”
Sinossi
Il film non è una storia dell’industria italiana, del suo progresso economico, dei ritardi o delle occasioni mancate, ma della realtà che vi sta dietro. È una storia di volti, di facce operaie, un ritratto delle persone che hanno popolato e popolano le fabbriche italiane. È un omaggio al loro lavoro, ai loro gesti, alla loro professionalità. È un mosaico di voci e di dialetti che va dal Sud al Nord del Paese, dalla grande alla piccola fabbrica, e che prova a restituire un’immagine dell’Italia. Si inizia dal cancello di una fabbrica degli anni Cinquanta. Sono vecchie immagini degli archivi Rai, girate dentro una fabbrica siderurgica. All'interno gli operai sono al lavoro: precisi, puntuali calcolano i gesti, sopportano il rumore. Da questa fabbrica del primo dopoguerra inizia il viaggio attraverso la coscienza operaia del Novecento per comprendere tutte le trasformazioni. Sono gli operai stessi a raccontare il proprio lavoro, le aspirazioni, le sconfitte, le speranze. Dall'Italia contadina a quella del miracolo economico, dalle lotte dell'autunno caldo ai 35 giorni di sciopero serrato alla Fiat, fino ai giorni nostri attraverso i volti e le voci operaie.
Dichiarazioni
«Per In fabbrica ho attinto a piene mani dagli archivi delle Teche Rai cercando di non essere condizionata dalla nostalgia. Secondo me la nostalgia è un'ossessione, un sentimento dominante nel nostro paese, che allontana dalla memoria. Anzi: ne è l'esatto contrario. La nostalgia è un modo di scagliare il passato contro il presente e consente di sfuggire al dovere di pensare il nostro tempo, di viverlo e forse di cambiarlo. Non so bene quando sia nata questa forma ossessiva del nostro pensiero, eppure ho la sensazione ché esso sia legato alle fabbriche, all'industrializzazione, al cambiamento totale della realtà del nostro paese in pochi anni. Tuttavia un senso di nostalgia ha accompagnato tutto il mio lavoro in questo documentario. Eppure ho cercato di combatterlo. Credo che sia giusto guardare indietro ma credo anche che si debba cessare di rimpiangere il passato. Spesso esso viene usato contro il presente. E' certo che l'Italia che scorreva davanti ai miei occhi attraverso le immagini di repertorio, quelle facce così fiere e particolari, mostrate da immagini bellissime, in pellicola, in bianco e nero, attraverso lo sguardo di grandissimi registi inducevano continuamente al rimpianto» (F. Comencini, “La Stampa – TorinoSette”, 23.11.2007)
«Il periodo storico che indago con questa pellicola è una “zona” della nostra storia che spesso a scuola i giovani non studiano, quindi il film va a colmare delle grandi lacune su un pezzo molto vicino del nostro passato. Non bisogna permettere di perdere il ricordo di ciò che è stato. La fabbrica dove ho girato le scene del film è una realtà modello dove ad esempio tutte le regole di sicurezza sono rispettate. Purtroppo noi italiani sappiamo che ci sono delle realtà molto differenti. Quindi diventa fondamentale ritrovare i diritti e la coscienza di sé e di quello che siamo stati. [...] Spero che questo lavoro dia un segnale importante per far capire l'importanza di finanziare e dare visione ai documentari italiani nel nostro territorio. In Italia abbiamo tantissimi documentaristi eccellenti, ma chi si occupa della distribuzione e produzione non tiene canto dell'importanza del rapporto strettissimo che esiste tra cinema e documentario. Il documentario è cinema» (F. Comencini, Dichiarazioni nella Conferenza Stampa al Torino Film Festival, 29.11.2007).
«Credo sia giusto guardare al passato, ma senza rimpiangerlo. L’Italia che scorreva sotto i miei occhi attraverso lo sguardo di grandissimi registi induceva ogni momento al rimpianto. Eppure io credo che la nostalgia sia anche un modo di dimenticare. Si usa il passato contro un presente che si suppone più scadente. Questo documentario è basato su un doppio tema: gli operai e i registi che li hanno documentati. Gli uni e gli altri sono stati il sale del nostro Paese e credo che noi dobbiamo loro uno sforzo continuo di memoria perché ci aiutino a sapere chi siamo e ad andare avanti» (F. Comencini, www.torinofilmfest.org).
«Credo che il lavoro sia il punto centrale attraverso il quale tentare di ricominciare a raccontare la vita delle persone con un certo grado di realtà. Intendo il concetto di realtà nel senso dell'unicità delle persone. In questo paese la realtà è stata via via eliminata dal racconto televisivo e cinematografico degli ultimi anni. E questa rimozione, che è stata sicuramente un'operazione politica, è avvenuta in gran parte eliminando non solo il tema del lavoro, ma anche il minimo sospetto della sua presenza nelle vite, nelle facce e nei corpi delle persone rappresentate. Per questo, molto semplicemente, mi è sembrato necessario ripartire da lì. [...] Quando parlo di realtà mi riferisco al modo in cui la intendeva Elsa Morante: una realtà opposta all'irrealtà che ci assedia ogni minuto e in ogni racconto, che tende a non distinguere tra le diverse coscienze delle persone e a ignorare l'unicità delle stesse. Però amo anche la tanto vituperata parola "impegno". Ne sono fiera, e penso che oggi più che mai non si possano fare grandi disquisizioni seduti ai tavolini del bar. [...] Mi è venuta voglia di andare a indagare e a rendere visibile come lavoravano, come parlavano del loro lavoro e della loro vita, in rapporto al lavoro stesso, gli operai italiani. Che non sono solo la classe che più di ogni altra è stata vettore dei cambiamenti economici, politici e morali del nostro paese, ma anche, e soprattutto, è quella grande fetta di umanità che ancora esiste ma di cui oggi non si parla più. [...] C'è bisogno, urgenza, necessità di ridare parola agli uomini e alle donne che lavorano nelle fabbriche. Lasciandoli parlare e cercando di fornire a loro (e a noi tutti) uno specchio della realtà più degno. Ci vorrà molto tempo ancora, credo... [...] In fabbrica è un'incursione nel passato attraverso materiale di repertorio. Ma io ho ribadito che questo documentario non è mai stato animato da un sentimento di nostalgia. Questo atteggiamento, secondo me da combattere, è purtroppo onnipresente nel pensiero collettivo di questo paese. La nostalgia è il contrario della memoria. Nel mio film non c'è la minima intenzione di mettere in opposizione gli operai del passato con quelli di oggi. Anzi! Gli operai che ho intervistato rivelano qualità preziose come quelle delle vecchie generazioni e, aldilà della coscienza politica e di classe che non hanno più, mantengono molte similitudini con gli operai del passato raccontati con i materiali di repertorio che ho adoperato. Sono animati dalla stessa forza e dalla stessa etica del lavoro. Faticano oggi, come faticavano ieri. Il problema è che di operai si parla troppo poco»(C. Comencini, “Close Up” n. 23, dicembre 2007-marzo 2008).
«Il progetto è nato su input del direttore generale della Rai che voleva realizzare un documentario sul mondo del lavoro. Con Francesca avevamo già lavorato su questi argomenti, quindi il suo nome è stato scelto immediatamente. La sua passione per i documentari e il suo interesse per l'argomento l'hanno fatta buttare a capofitto in questo progetto, inizialmente affiancata da un gruppo di studio» (C. Valmarana, Dichiarazioni nella Conferenza Stampa al Torino Film Festival, 29.11.2007).
«[A] Francesca Comencini […] la Rai Teche diretta da Barbara Scaramucci ha commissionato In fabbrica, […] già bollato dalle proteste di chi sostiene che sia un lavoro capzioso, di parte, privo di contraddittorio e del sangue fatto scorrere, anche in fabbrica, dalle Brigate rosse. Di chi lo ha già marchiato come l'ultima cena del governo uscente, l'ultima mangiata di soldi, spesi a ufo per ricordare una classe operaia già morta e sepolta. Buona solo per i santini dei comunisti. In fabbrica di Francesca Comencini […], grazie ai materiali Rai e al contributo dell'Archivio del movimento operaio ricostruisce la nascita stessa della fabbrica in Italia. Quando andare a lavorare al nord significava abbandonare i campi e le famiglie e sognare una casa e le scuole per i figli. Giovani donne e contadini che mescolano i vecchi accenti meridionali ai nuovi del bergamasco, le vecchie pettinature ai nuovi abiti, il passato di miseria a un presente povero ma ricco di sogni. La fabbrica che chiama con le sirene, un fiume umano che entra in bicicletta e a piedi, le macchine gigantesche che aspettano di essere avviate da mani sapienti. E poi la notte a dormire in stazione, con la valigia accanto. È il decennio dei Cinquanta, la fabbrica è l'emblema della riscossa di un intero paese, ogni sacrificio è sostenuto dalla speranza. Nei Sessanta le cose iniziano a cambiare, le mani sono stanche e i cervelli davanti alla catena cominciano a cedere. Iniziano le lotte, si forma la coscienza. Comencini lascia che a raccontare siano i documenti, le voci degli operai e delle operaie. Solo a tratti il commento della regista storicizza i passaggi. Nei Settanta la battaglia si fa sempre più dura, l'atmosfera si incupisce fino a culminare nel corteo dei quarantamila colletti bianchi. Con il passare dei decenni il documento di Comencini va scemando, i materiali delle Teche sembrano impoverirsi, fino a giungere frettolosamente a un presente di reparti colorati, dove l'elemento umano è scarno ma ben inserito, la dignità apparentemente recuperata e l'attenzione dell'autrice tesa più che altro a testimoniare una presenza operaia ancora viva anche se ignorata» (R. Ronconi, “Liberazione”, 13.2.2008).
«Una cercatrice di volti. E delle storie che pieghe e rughe di quei volti nascondono. E poi i dialetti, una moltitudine. Per ricostruire, come mai era stato fatto finora, l'Italia operaia dagli anni Cinquanta a oggi. Francesca Comencini […] per mesi si è chiusa negli archivi Rai e ha cesellato un ritratto umano delle persone che hanno popolato e popolano le fabbriche italiane. […] Se la sorella Cristina […] spesso parte per fare un film da un racconto che ha scritto, Francesca, regista di Mi piace lavorare, il film sul mobbing con Nicoletta Braschi, parte da un'inchiesta-documentario. Per Francesca fare prima un documentario e poi, se è il caso, passare a un'opera di fiction, è diventata una necessità […]. Di documentari ne ha fatti sulla Bosnia del dopoguerra, su Carlo Giuliani e le giornate del G8 di Genova, su Elsa Morante. E nei suoi progetti futuri c'è un film da ambientare a Marghera, nel petrolchimico» (C. Ferrero, "La Stampa", 29.11.2007).
«Mescolando vecchie immagini degli archivi Rai, interviste d'epoca e testimonianze dirette raccolte nelle fabbriche di oggi, la Comencini ricostruisce un sessantennio di vita italiana: dall'emigrazione degli operai meridionali verso il Nord degli anni 50 alle illusioni del boom economico, dalle lotte sindacali degli anni 70 all'autunno caldo degli scioperi Fiat, dallo spaccamento del movimento operaio alle storie, sempre uguali e sempre diverse, della quotidianità del nostro tempo. A parlare sono soprattutto immagini mute: facce segnate dal tempo e dalla fatica, sorrisi che celano nostalgie di posti lontani e speranze di vite migliori, braccia e mani piagate dal ritmo incessante di un'esistenza meccanica, sguardi che hanno in sé la rassegnazione o la rabbia di una vita scandita dal battito martellante delle catene di montaggio. E poi suoni, rumori, accenti diversi, figure nascoste dietro una pioggia di faville, biciclette abbandonate ai portoni, voci alla scoperta di una coscienza di sé che libera e che soffoca, frammenti di vite che ci restituiscono l'immagine di un'Italia che fu, di un'Italia che è ancora» (L. Giacalone, “Daily Torino Film Festival”, 28.11.2007)
«Parlando del documentario […] devo dire che sono entrato in sala un po’ prevenuto, alla luce dei molti film recenti che affrontano temi popolari solo per il bisogno di sentirsi catarticamente buoni ed impegnati, così annullando la spinta a fare qualcosa di concreto nella realtà vera, che non coincide mai con lo spazio della sala cinematografica. Nonostante l’incipit un po’ retorico (“Oggi degli operai si parla solo quando muoiono sul lavoro”), e nonostante qualche approssimazione storica (“Dopo la marcia dei 40.000 – avvenuta nel 1980, ndr – è sceso il silenzio sugli operai, in Italia”), il docu di Francesca Comencini è stato invece una piccola grande sorpresa: non solo perché ha raccontato gli anni ‘50/’60/’70 senza ideologizzazioni, ma soprattutto perché ha affrontato il presente con sincerità e pulizia, nel momento in cui è andata ad incontrare gli operai di oggi. È vero che l’energia della ragazza madre intervistata, e la fierezza del ragazzo che ha detto “è bello essere un operaio”, cioè una persona che la sera si sente stanco perché ha prodotto qualcosa di concreto per gli altri, come pure la consapevolezza del giovane di colore che parla del fenomeno dell’immigrazione planetaria come di un processo storicamente necessario dal quale non si può più prescindere, non costituiscono – forse – un campione rappresentativo del mondo operaio di oggi […] però è bello sapere che esistono pure queste persone, e che coloro che confezionano la materialità del mondo di cui tutti noi ci cibiamo, giorno dopo giorno, sono innanzitutto persone con un’anima ed una coscienza, al di là delle braccia» (M. Lombardi, “Il Sole 24 Ore”, 11.6.2008).
«In fabbrica è riuscito in questo: a farci rivedere – o a far vedere per la prima volta ai più giovani – come l’Italia si sia trasformata, in poco più di mezzo secolo, da paese povero – in cui le vecchie contadine del Sud potevano apparire ancora immerse in un’atmosfera arcaica, mitico-magica – a grande paese industriale dotato di un apparato produttivo tecnologicamente avanzato e già compiutamente postfordista. Al centro di tutto non la solita inconcludente solfa sul valore del lavoro, ma il lavoro umano, quello vero. O per dir meglio, il rapporto tra i lavoratori dell’industria e il proprio lavoro. Una love story, fatta di amore per un’attività cui vengono affidate le proprie speranze di emancipazione dalla miseria e dall’arretratezza, di progresso e di ascesa sociale, e insomma la volontà di procurarsi un reddito sicuro, una vita dignitosa e, soprattutto, un ruolo sociale positivo e utile per sé e per tutti. Un’ultima osservazione: tolti i misurati interventi delle voci fuori campo inserite dagli autori – didascalie sonore di raccordo tra una scena e l’altra – e tolte le voci originali degli intervistatori contenute nei materiali utilizzati, le voci presenti nel film di Francesca Comencini sono solo quelle dei lavoratori che si raccontano in prima persona. Unica eccezione, un comizio volante di Bruno Trentin davanti ai cancelli di Mirafiori» (F. Liuzzi, www.rassegna.it, 8 febbraio 2008).
Scheda a cura di Franco Prono
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