«Quando la Settima Arte incontra la fiction televisiva, nascono ibridi deteriori come Lettere dalla Sicilia. Per il suo primo lungometraggio, Manuel Giliberti (autore anche di sceneggiatura e scenografia) si è basato su diari inglesi di viaggio dell'Ottocento. Un periodo in cui era di gran voga il sud Italia, alla ricerca della Magna Grecia perduta e con una ambivalente attrazione verso i luoghi unita a ripulsa per le scomodità e gli abitanti, visti come incivili. […] Mentre lavorava alla docu-fiction Giovanni Falcone - I giorni della speranza, Giliberti ha percepito la violenza come stratificazione storica, e l'incontro con la cultura antica come foriero di una sopraffazione ascendente rispetto a quella mafiosa. Da qui, l'interessante intuizione del film. Tra illustrazioni dell'isola da ente turistico, ci tocca però sorbire l'interpretazione da reality della coppia protagonista, le discettazioni su un paio di argomenti (da una parte il buon costume, dall'altra lui che tenta di spiegare a lei che si è reincarnato), e i due promessi sposi che si fissano immobili o pronunciano frasi tipo “ti amo troppo” e “i secoli ci hanno diviso, ma non per sempre» (F. Raponi, “Liberazione”, 9.3.2007).
«Lettere dalla Sicilia, opera prima del siracusano Manuel Giliberti, racconta di genitori ottusi e certi della propria dimensione sociale, ma anche dell'opposizione (a volte vana) ai conformismi e della ricerca di normalizzazione. Ma soprattutto della difficoltà di vivere nella società di oggi. Il regista usa l'allontanamento temporale e l'ambientazione storica per meglio mostrare la violenza: quella che nasce dal confronto fra due modi di essere. Un film di impianto teatrale (e con un certo senso lirico), nel quale vere protagoniste sono le suggestioni di quei luoghi antichi. Un lavoro non riuscito del tutto (il ritmo cala nella seconda parte), ma che ci mette in attesa del secondo lungometraggio di un autore che sembra avere qualcosa da dire» (R. Bottari, “Il Messaggero”, 2.3.2007).
«Ancora un viaggio fisico destinato a divenire nell’arco di poche ore un passaggio in una dimensione mentale senza ritorno (vedi Musikanten di Franco Battiato), che rende cechi e folli, che lascia un segno indelebile nella vita di che quei momenti li ha vissuti talmente intensamente da non riuscire più a trovare la via d’uscita, dal non riuscire più a distinguere il sogno dal reale. È il caso di Morgan, il protagonista dell’opera prima di Manuel Giliberti Lettere dalla Sicilia, un uomo che finisce inesorabilmente col perdersi tra gli stretti corridoi di un labirinto inciso nella pietra. Tutto si semplifica in questa scena chiave, oniricamente desaturata, che il regista preannuncia con flash e subliminali visivo-sonori sparpagliati qua e là nello script. Siamo di fronte forse all’unico passaggio degno di nota, riuscito dal punto di vista tecnico stilistico, ma decisamente decontestualizzato, che consegna allo spettatore, ormai sopito, un registro dalle vene horrorifiche e mnemoniche che cozza violentemente con il resto del film. Una simile operazione si tramuta in una digressione psichica, si inaspettata (se queste erano le reali intenzioni del regista), ma che appare a conti fatti come un escamotage narrativo per portare a termine una storia piuttosto debole, priva di sussulti, animata da personaggi appena abbozzati. Giliberti, scenografo di pellicole come Gli astronomi di Diego Ronsisvalle e Sotto gli occhi di tutti di Nello Correale, co-autore della sceneggiatura insieme a Luciano Bottaro, fatica ancora di più a metterla in scena. L’origine cartacea da cui prende il via la pellicola tratta la suspense come un optional da usare nei momenti di bisogno, i passaggi tra una scena e l’altra sono farraginosi e spesso forzati, i dialoghi non sempre all’altezza. Il risultato è una narrazione che va avanti a fatica singhiozzando continuamente, oscillando tra la mediocrità di un prodotto cinematografico non riuscito e lo standard televisivo. […] Dal punto di vista tecnico-stilistico la regia è discontinua, alterna scambi di lucidità e creatività visiva (la già citata scena del labirinto e quella del bacio interrotto nel bosco, montata con un susseguirsi elegante e azzeccato di dettagli della bocca e degli occhi con primi piani stretti di Vittoria e Morgan controluce), a evidenti cali che riportano il tutto nella media ad un livello accademico che più classico di così si muore. Degne di nota la colonna sonora di Antonio di Pofi e le stupende location sicule» (F Del Grosso, www.cinemavvenire.it).