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ENCICLOPEDIA DEL CINEMA IN PIEMONTE

Lungometraggi



Il Divo
Italia, 2007, 35mm, 110', Colore


Regia
Paolo Sorrentino

Soggetto
Paolo Sorrentino

Sceneggiatura
Paolo Sorrentino

Fotografia
Luca Bigazzi

Operatore
Salvatore Bognanni

Musica originale
Teho Teardo

Suono
Emanuele Cecere

Montaggio
Cristiano Travaglioli

Effetti speciali
Vittorio Sodano

Scenografia
Lino Fiorito

Arredamento
Alessandra Mura

Costumi
Daniela Ciancio

Trucco
Vittorio Sodano

Aiuto regia
Davide Bertoni

Interpreti
Toni Servillo (Giulio Andreotti), Anna Bonaiuto (Livia Andreotti), Piera Degli Esposti (Signora Enea, segretaria di Andreotti), Paolo Graziosi (Aldo Moro), Giulio Bosetti (Eugenio Scalfari), Flavio Bucci (Franco Evangelisti), Carlo Buccirosso (Paolo Cirino Pomicino), Giorgio Colangeli (Salvo Lima), Alberto Cracco (don Mario), Lorenzo Gioielli (Mino Pecorelli), Gianfelice Imparato (Vincenzo Scotti), Massino Popolizio (Vittorio Sbardella), Aldo Ralli (Vincenzo Ciarrapico), Giovanni Vettorazzo (giudice Scarpinato), Cristina Serafini (Caterina Stagno)

Casting
Anna Maria Sambucco

Produzione
Nicola Giuliano, Francesca Cima, Andrea Occhipinti, per Indigo Film, Lucky Red, Parco Films

Distribuzione
Lucky Red

Note
Sottotitolo: La straordinaria vita di Giulio Andreotti.
 
Consulenza alla sceneggiatura: Giuseppe D'Avanzo; operatori steadycam: Alessandro Brambilla, Luca Dell’Oro; suono in presa diretta; montaggio del suono: Silvia Moraes; fonico di mixage: Angelo Raguseo; parrucchiere: Aldo Signoretti; assistente alla regia: Paolo Batoli; altri interpreti: Achille Brugnini (Fiorenzo Angelini), Fanny Ardant (Moglie dell'ambasciatore francese), Michele Placido, Beppe Grillo (se stesso), Renato Zero (se stesso); stunt: Massimiliano Bianchi; segretario di produzione: Vincenzo La Gatta; location manager: Adriano Bassi; organizzatore generale: Viola Prestieri, Gennaro Formisano; coproduttori: Fabio Conversi, Maurizio Coppolecchia; coproduzione con: Babe Films, Studiocanal, Arte France Cinéma in collaborazione con Sky; produttori associati: Stefano Bonfanti, Gianluigi Gardani.
 
Locations: Torino (via Carlo Alberto, via Giolitti, carcere delle Vallette, corso Duca degli Abruzzi, piazza Carignano, via Cesare Battisti, via Bertola, Palazzo Civico, Palazzo Paesana, via Vela, ponte Rossini), Roma, Napoli, Palermo.

Film realizzato con il contributo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali Direzione Generale per il Cinema, con la partecipazione del CNC (Centre National de la Cinématographie), con il sostegno di Eurimages, con a collaborazione della Film Commission Torino Piemonte, con il contributo della Regione Campania (Assessorato al Turismo ed ai Beni Culturali), con lacollaborazione della Film Commission Regione Campania.
 
Premi: Premio della Giuria al 61° Festival di Cannes (2008).




Sinossi
A Roma, all'alba, mentre tutti dormono c'è un uomo che non dorme: Giulio Andreotti. Non dorme perché deve lavorare, scrivere libri, fare vita mondana e, alla fine, anche pregare. Calmo, sornione, impenetrabile, in Italia, Andreotti da 40 anni è il potere. All'inizio degli anni '90, senza arroganza e senza umiltà, ambiguo e rassicurante, avanza inesorabilmente verso il suo settimo mandato di Presidente del Consiglio. A quasi settant’anni fa parte di quella gerontocrazia che non ha paura di nessuno. È abituato a essere ossequiato e a vedere il timore reverenziale sul volto dei suoi interlocutori. Ama il potere, con il quale vive in simbiosi. Un potere immutabile in cui tutto, battaglie elettorali, attentati terroristici, accuse infamanti, gli scivola addosso senza lasciare traccia, lasciandolo sempre uguale a se stesso.




Dichiarazioni
«Mi piacciono le storie di ascese e cadute. Nel '91 Giulio Andreotti era ancora un presidente del Consiglio con tutti i crismi del potere invulnerabile. Quello del "Meglio tirare a campare che tirare le cuoia". Quintessenza del paludamento Dc. […] II personaggio racchiude in sé tre elementi affascinanti: la forza simbolica dell'uomo di potere, quella reale di uno che ha segnato cinquant'anni di storia italiana e poi una complessità psicologica formidabile […] Esclusi il gesto ricorrente di aggiustarsi gli occhiali e pochi altri, è un uomo dalla mobilità minimale. Bagaglino a parte, Oreste Lionello ne ha dato una definizione abbastanza esatta: "Andreotti è un robot". Oltretutto, uno che vive seduto. Nessuna mimica o pose enfatiche. Fino a quando, d'improvviso, non sgrana gli occhi. Incomprensibilmente. Senza apparente rapporto causale con un'emozione. Chiedi, che so, un bicchier d'acqua e lui li strabuzza come se stessi rivelando un segreto di Fatima. Quanto alla "gobba", ormai sappiamo che non esiste: è una postura. In cui credo stia molto comodo. […] Carpirgli un tratto di umanità è impresa disperata. Anche per via della blindatura cinica. […] Perfino Paolo carino Pomicino mi ha raccontato di esser stato a casa sua una sola volta e non oltre l'ingresso. […] Anche le famose boutade andreottiane sono un enîgma. Esprimono sicuramente intelligenza. Ma non per forza un pensiero. O profondità di ragionamento. Forse sono un dono di natura intuitivo. Tipo suonare il pianoforte a orecchio» (P. Sorrentino, “Il Venerdì di Repubblica”, 9.5.2008).
 
«Ho notato che chi ha una forte passione per la politica ha vissuto il film soprattutto da un certo punto di vista. Viceversa, chi ha una forte passione per il cinema ha apprezzato soprattutto l'estetica del film. Ma molti spettatori hanno saputo unire le due cose e questo mi fa un gran piacere. Per me si è trat­talo di affrontare un tema di per sé scivoloso, perché le biopic lo sono per ovvie ragioni, e la politica italiana, che non ha degli schemi netti e chiari, è qualcosa di molto intrigato e complesso. Di conseguenza anche il film necessitava di una struttura complessa. Non condivido, per Il divo, le definizioni di film grottesco, onirico o comico. Vista la complessità del personaggio, dell'argomento e delle tante tematiche che stanno al suo interno, credo di aver messo in scena uno stile che rispetti questa com­plessità. Che di volta in volta si fa realistico, onirico, grottesco e comico. A volte questi stili interagiscono tra di loro e altre volte si costruisce semplicemente un film d'azione. [...] Temevo che l’interpretazione del film si rifacesse solo all'argomento, al peso del per­sonaggio che rischiava di essere prevaricatore rispetto alla tipologia del­la messa in scena. Invece sta arrivando bene l'idea della cifra linguistica, o della molteplicità delle cifre stilistiche, definizione che preferisco per la regia del film. L'aspetto stilistico non è secondario rispetto al contenuto. [...] Godard diceva che si deve partire dal reale per andare altrove, e poi dall'altrove tornare al reale. C'è un continuo rimbalzo tra la realtà e il cinema nel mio film. È ovvio che se giro una pellicola su Giulio Andreotti a un certo punto smetto di pensare a lui e faccio sì che diventi un mio personaggio cinematografico. E quindi metto Andreotti e la politica al servizio della mia idea di cinema. Però è anche vero che misuro il cinema sulla base di quello che sto raccontando. Sarebbe presuntuoso pensare che tutto ciò che mi circonda possa entrare dentro la mia idea di cinema. Devo avere una flessibilità tale per cui adatto il linguaggio e la forma a quello che devo e voglio raccontare. [...] II desiderio di partenza era quello di raccontare un personaggio per me ambiguo e al tempo stesso affascinante, e capace di suscitare sospetti, sfiducia e dubbi. Questo mi interessava molto. Quel personaggio esercitava su di me un sentimento ambivalente. Di paure ce ne sono state tan­te, ovviamente. Però ho affrontato con molta incoscienza questo film. [...] Il film vuole scandagliare, analizzare, studiare, rappresentare molto il funzionamento del potere in generale. Che poi questo tipo di potere ci sia in Italia è vero, ed è vero che in Italia assume delle forme particolari rispetto ad altre nazioni, d'Europa e del mondo. Ma i meccanismi psicologici derivanti dal potere sono più o meno simili nelle varie culture. [...] Con Il Divo volevo raccontare i meccanismi del potere, che sono la solitudine, l'arroganza, la tendenza a costruire una vita basata esclusivamente sui rapporti di forza. È una cultura che appartiene a chiunque eserciti il potere. La grande anomalia dell'Italia è che gli uomini di potere, fino a un certo punto, sembravano essere destinati a esercitarlo a vita» (P. Sorrentino, “Close Up” n. 23, dicembre 2007-marzo 2008).
 
«Ho affrontato la parte mostrandolo a vista: in maniera "epica", per usare una terminologia brechtiana, sfuggendo così la perniciosità della caricatura stile Bagaglino. Non dovevamo fare una fiction né un documentarlo. Al contempo, non potevo prestargli nulla di me stesso - la voce, i modi, il comportamento - come ad un personaggio di fantasia. Si parte da un simbolo forte del potere - con tutta la persuasività, il mistero e l'imperscrutabilità di questo - per poi allontanarsi e far riflettere sul tema: quegli anni che hanno cambiato non poco il Paese. […] Mi sono riguardato il Lucky Luciano di Volontè e mi sono riletto le cronache di Manganelli su un congresso Dc suggendone l'atmosfera curiale, vedovile, bisbigliata (Todo modo di Elio Petri: l'omertà, l'aura di peccato, i silenzi)» (T. Servillo, “Il Venerdì di Repubblica”, 9.5.2008).





«Con Il Divo Sorrentino fa il salto e vola. Perché riesce in qualcosa inimmaginabile, come mettere in scena non un uomo, non la sua storia, ma una condizione, un'emozione, di più, un'astrazione: il potere. Il potere così come ha preso forma in Italia, terra di feudi e principati, guerre tra vicinissimi, più spesso tra parenti e quindi ancora più subdole, segrete, fatte di ombre più che di esplosioni. Un potere che, negli ultimi cinquanta anni della nostra storia, ha trovato carne per le sue ossa in quel fisico risicato di Giulio Andreotti, sette volte nostro presidente del consiglio e a un passo dalla presidenza della Repubblica. Proprio su questa soglia di reggenza poi negatagli (al suo posto verrà eletto Scalfaro), Sorrentino concentra giustamente la sua attenzione, lì dove è possibile sintetizzare ciò che è stato prima (il potere senza limiti) e ciò che sarà dopo (l'inizio degli anni Novanta, poco prima che la dc venga spazzata via). Il Divo ha le movenze di un quartetto per archi, un minuetto più che un racconto, dove il magico Servillo-Andreotti canta come un eunuco delle sue perigliose gesta. Sebbene sia chiara la collocazione temporale (dagli inizi dei Novanta, alla fine del processo per associazione mafiosa), in realtà il film è senza tempo e senza spazio, affresco immobile e gigantografico per chi vuole vedere che faccia ha, quella cosa lì. Quella che ha abitato le pieghe del nostro paese da sempre, che ci ha resi sudditi senza che ne avessimo coscienza, che ci ha manovrati a suo piacimento, e uccisi e sacrificati. In nome di un ordine superiore deciso da un solo uomo» (R. Ronconi, “Liberazione, 30.5.2008 ).
 
Sor­rentino […] sceglie la cifra della surrealtà e il registro della trasfigura­zione caricaturale per raccontare il “divo Giulio” e la sua corte. In secondo luogo, costruisce il film attraverso un minuzioso scavo archivistico, metten­do in bocca ai suoi personaggi una se­rie di frasi tratte da interviste, atti pro­cessuali e dichiarazioni ufficiali. […] Sorrentino non giudica, ma vuole rac­contare. In effetti, questo non è un film contro Andreotti, ma su Andreotti co­me metafora del potere italiano, sulla noia e sulla solitudine del potere, e sul­l'obbligo che il pubblico ha di rispec­chiarsi in esso, perché non ne è affatto estraneo, anzi. In realtà, nella pellicola di Sorrentino c'è più Fellini che Rosi, più Petri che Rossellini, e il grottesco documentario, cinico, graffiante, disin­cantato, appare l'unica risorsa credibi­le per mettere in scena l'eterno teatro dei caratteri e delle maschere italiane, la sola forma di dissenso possibile. […] Forse una spia del punto di vista del regista sul “divo Giulio” è nell'insi­stenza con cui ne inquadra le mani, in­vitando da subito lo spettatore a pre­stare attenzione al valore simbolico di quella gestualità. […] Nel­lo scarto tra la mano filmica e quella antropologica di Andreotti c'è una delle possibili chiavi di lettura della pellicola, ma al tempo stesso la sua inevitabile contraddizione, che rac­conta in presa diretta, come solo l'ar­te sa fare, l'insufficienza, l'imbarazzo e l'incertezza con cui l'Italia di oggi guarda al suo recente passato. Gli sto­rici avranno di che lavorare» (M. Gotor, “La Stampa”, 31.5.2008).
 
«[…] la spettaco­lare vita di Andreotti (sottotitolo del film) diventa una magnifica metafora del potere: diventa epica. Bisogna far esplodere l'ira di Achille perché venga fuori l'Iliade. Bisogna tener conto dell'infanzia difficile di un assassino, per scrivere A Sangue Freddo. Siccome solo nelle ambiguità fra il bene e il male succede qualcosa di inte­ressante, penso sia necessario rinunciare a un punto di vista esterno e guadagnar­ne un altro, nelle sue viscere. Un punto di vista da cui nessuno ci disgusta più di quanto ci disgustiamo da soli e da cui in­somma il giudizio sia possibile solo appu­rata la nostra potenziale criminalità. […] Perché se è vero che nella vita di tut­ti i giorni abbiamo bisogno della bussola delle nostre opinioni, all'arte dovrebbe spettare il compito di disorientarci. Metterci in comunicazione col mistero. Del potere, dell'amore, del bene, del ma­le. Renderci consapevoli che tutto, pro­prio come ci insegna il Divo Giulio, è più complesso di quanto sembra. Fa paura. Ma se non si mette in conto la paura, forse non c'è possibilità di conoscenza. E se almeno dentro i confini protetti di un'opera d'arte non ci spaventiamo, se almeno lì non ci innamoriamo di quanto ci spaventa, e dunque ci spaventiamo di noi, che possibilità abbiamo di capire davvero qualcosa, e magari, perché no, di metterci al riparo?» (C. Gamberale, “La Stampa”, 31.5.2008).  
 
«Il regista Sorrentino è bravissimo, usa la macchina da presa mirabilmente, sia quan­do la tiene fissa sui personaggio sia quando la muove con un ritmo frenetico su oggetti, paesaggi, interni, comprimari, con un gusto di calligrafia e di citazioni colte di livello ec­cezionale. L'attore protagonista, Servillo, è il migliore di quanti lavorano in Italia e non teme confronti neanche sul mercato interna­zionale. Comprimari, comparse, luci, impa­ginazione grafica: tutto da approvare, sicché era giusto quanto hanno scritto i critici da Cannes quando si rallegrarono del rilancio de) cinema italiano rappresentato da Go­morra e da II Divo. Ma, detto tutto que­sto, il film non mi ha convinto. Nonostante il regista, l'attore e tutto il resto. […] Tutto questo per dire che un'interpretazio­ne artistica che voglia mettersi al livello del personaggio non può che essere problema­tica quanto lo è lui; un'opera aperta che la­sci allo spettatore di cavarne una conclusio­ne e un senso. Ma il film non lascia questo spazio, è schierato dalla prima all'ultima scena. Sostiene una tesi e la porta fino in fondo dalle immagini di presentazione a quelle di coda con l'elenco dei processi, del­le condanne, delle assoluzioni, elencate con una oggettività che parla da sola e sottoli­nea la tesi come per dire: sempre assolto no­nostante tutto quello che finora avete visto. […] Chi è dunque Andreotti? Un uomo di pote­re, innamorato del potere. Pessimista sul­l'Italia e sugli italiani. Governarli è necessa­rio, trasformarli impossibile. Cattolico de­voto quanto miscredente se lo si guarda in un'ottica cristiana. Figure come De Gaspe­ri, Moro, Fanfani, Dossetti, Andreatta, Scoppola non avevano niente a che fare col suo modo d'esser cattolico. […] C'è un passaggio illuminante nel film, quando lui dice: bisogna saper fare anche il male per arrivare al bene, io lo so fare e anche Dio lo sa» (E. Scalfari, “L’Espresso”, 12.6.2008).
 
«Gomorra e Il Divo […], a tutti gli effetti, possono essere definiti politici. Più di tutti, Il divo, naturalmente, dove Andreotti […] viene raccontato durante un’agonia politica che non molti commentatori hanno messo in luce. Si tratta, a ben vedere, di un requiem che – partendo dalla visione kafkiana e brechtiana della DC già presente in Todo Modo (1976) di Elio Petri – si allontana poi dal predecessore per privilegiare una messa in scena d’impatto visivo quasi cartoon. Il mescolamento di stili e cifre (tragico, grottesco, comico, western, farsesco, machiavellico, action) […] trova qui una ragion d’essere fulminante. Se Andreotti è imprendibile, tanto vale “martellare” la sua biografia e la sua corrente di potere attraverso tutto ciò che si allontana dalla consueta rappresentazione televisiva e civile. In certo qual modo, Il Divo è l’anti-film di denuncia, nonché la dimostrazione che si può inventare da capo un linguaggio cinematografico (postmoderno e barocco) anche quando ci si impasta le mani con la cronaca» (R. Menarini, “Close-up” n. 23, dicembre 2007-marzo 2008).
 
«Il protagonista, l’ambiente. Il periodo storico sono rappresentati benissimo: il Gran Sasso dei ricordi di prigionia e la Torino della casa dello scrittore si armonizzano perfettamente con l’autentica San Pietroburgo. Senza dire dell’esattezza dei costumi, delle uniformi, e della scelta suggestiva di certi luoghi come la cella dell’orologio sul campanile in cui si risolve lo scontro tra Dostojevskij e l’inquisitore. Chiara immagine, fra l’altro, della corsa contro il Tempo e del suo scandire fatalmente la Storia. [...] Non si può negare la sagacia del regista di paragonare i dilemmi morali del nostro scrittore a quelli dei suoi personaggi: [...] riconosco [...] che Montaldo sia sincero e in buona fede [...] ecco che questi démoni svolgono la loro funzione, quella di abitarci e di inquietarci. Insomma di interrogarci» (E. Comuzio, “Cineforum” n. 5/475, giugno 2008).
 
«Dall’ouverture shock con l’elenco di morti eccellenti […] fino alle accuse dei pentiti di mafia, il processo di Palermo e quello di Perugia per l’omicidio Pecorelli: fortunatamente alla larga da qualsiasi tentazione calligrafica e sostenuto da un lavoro sul suono come al solito eccellente […], Sorrentino dimostra una vota di più quanto totalizzante ed estrema sia la sua idea di cinema, amalgama di sequenze dall’atmosfera e dall’impatto devastanti, surrealista ai limiti del parossismo, come lo skateboard che attraversa i corridoi di Montecitorio seguito all’auto di Falcone in volo esplosa a Capaci» (V. Sammarco, “Rivista del Cinematografo” n. 6, giugno 2008).
 
«Le sfilate della corrente andreottiana e di Andreotti stesso rispecchiano l'idea di un'allegoria. di un mascheramento dove il trucco è scivolare addosso al personaggio raccontato ed en­trare e uscire continuamente dalla maschera. Anche attraverso questo espediente si vuole veicolare un giudizio non tranciante sul divo, ma una sua divertita ed esorcizzante rappresentazione mascherata. Guardatelo mentre impassibile, imperturbabile, me­fitico, esce di scena senza voltare le spalle e facendo solo passi indietro o di lato come un Nosferatu riaggiornato all'oggi. Non c'è più un sosia di Andreotti, o quello di Pomicino (mostruosamente craxiano tra l'essere nano e danzare come e tra ballerine). o quello di Sbardella: ma la simbologia di una versione, duratura, della politica e della società italiana al tramonto nei primi anni '90 chiusa con un sinistro bianco e nero su un primo piano del divo in un tribunale che lo vedrà silente vinci­tore» (D. Turrini, “Segnocinema” n. 152, luglio-agosto 2008).
 
«In Todo modo Gian Maria Volonté interpreta un presidente del consiglio mel­lifluo dubbioso e tormentato, chiamato "M" e modellato sarcasticamente sul fisi­co e il linguaggio di Aldo Moro: tra gli al­tri politici convenuti nel convento di lus­so per partecipare a una settimana di "eser­cizi spirituali". c'è anche un "Lui", un importantissimo notabile (interpretato da Michel Piccoli). nel quale è facile poter riconoscere Giulio Andreotti […] Di­chiarava Elio Petri in un'intervista dell'e­poca rilasciata a Claudio Sestieri a pro­posito del suo protagonista: “Un masche­rone, una figura emblematica di quella gal­leria di personaggi che da anni turbano anche i nostri sogni”. Sorrentino per la rappresentazione del suo "Divo", pur scegliendo il "ma­scherone", va oltre, e adopera la lettera­tura come stilizzazione dialogica (Andreotti parla adoperando le sue stesse battute) e la realtà dei fatti storici come base dram­maturgica, seppure “vivacizzata” da colpi di surrealtà grottesca, senza temere che i piani della "Storia” e della finzione cine­matografica si accavallino o si contraddi­cano. E ci costringe a guardare come rea­le quello che non si era mai visto, quello che non si poteva vedere, qualcosa che non può (più) passare solo come il riflesso di una vita. Non è poco» (M. Garofano, “Segnocinema” n. 152, luglio-agosto 2008).
 
«È la prima volta nel Paese che si realiz­za un film critico su un leader politico vivente […]. Ma non sta in questo il pregio del film, né nella eccel­lente fusione del ritratto di .Andreotti con le parti che si riferiscono ai morti, ai suicidi, alle tenebre repubblicane d'epoca. Il punto è che il film è molto bello, ca­pace di denuncia sociopolitica con una nuova espressività che mescola uno straordinario uso delle ombre, dei ru­mori, delle musiche, degli ottimi attori secondari […] Scomparse le imma­gini nitide, energiche o espressioniste dei film di Rosi e di Petri, ne Il Divo […] grava una nebbia che evoca il ca­os, la confusione delle menti» (L. Tornabuoni, “La Stampa”, 12.6.2008).
 
«Ha ragione il maestro Rosi a stabili­re una continuità fra Gomorra e Il divo, entrambi premiati a Cannes. Se Garrone restituisce l'affresco di una realtà che è un putrido frutto del Male, Paolo Sorrentino di quel Male provvede a dipingere il volto oscuro, scegliendo la strada di un grottesco metafisico dove però nomi, date e processi sono tutti ri­scontrabili. […] Nella pellicola realizzata da Sorrenti­no con spavalda irriverenza, humor nero e senso dello spettacolo, Toni Servillo in­carna tuttavia il divo Giulio in una chiave di indecifrabile complessità e di ironico disincanto che assicureranno a questo di­scusso protagonista delle cronache poli­tiche e giudiziarie un indiscutibile posto nella storia dell'arte interpretativa» (A. Levantesi, “La Stampa”, 30.5.2008).
 
«Altro che film cattivo, come l'ha definito Andreotti. Il Divo è una sorta di tsunami che si scaglia contro il senatore a vita e su quarant'anni di regime democristiano. Un cinema capace di descriversi nella migliore tradizione del nostro cinema di impegno civile ma con l'aggiunta di quel pizzico di follia visionaria che Paolo Sorrentino ci ha già fatto conoscere. In quella Roma di intrighi, Vaticano e sfilate di potere fanno addirittura pensare a Fellini. Fin dai titoli di testa Il Divo è una mitragliata di battute, di sarcasmo e denuncia» (G. Gallozzi, “l'Unità”, 23.5.2008).

«Questo non è un film con tanti piccoli Alighiero Noschese, né una puntata del Bagaglino: è una tragedia greca dove tutti indossano maschere che nascondo le logiche, i rituali, il teatro del potere. […] Il Divo non è un film da politologi: non aggiunge nulla a ciò che sappiamo di Andreotti e della Dc, ma lo trasforma in pura rappresentazione della politica, costruita su toni visionari - incredibili le scenografie di Lino Fiorito e la fotografia di Luca Bigazzi - non lontani dall'orgia in maschera di Eyes Wide Shut. Qui veniamo all'unica perplessità: lo stile, perfetto nella prima mezz'ora [...] non ci sembra all'altezza quando entra in scena la tragedia vera» (A. Crespi, “l'Unità”, 24.5.2008).
 
«Il Divo […] riesce nella sfida di ritrarre un personaggio di cui tutto è stato già detto procurando l'impressione che tutto sia inedito, originale. Frutto di un calibrato mix tra documento e invenzione. Dove è l'invenzione, la libera utilizzazione del materiale o la sua manipolazione creativa a imprimere forza al film. Le persone più vicine a Giulio Andreotti, i capi della sua corrente, esprimono un alone sinistro e cupo che è conseguenza dell'interpretazione artistica ma non per questo perde in attendibilità. Il colloquio tra Andreotti ed Eugenio Scalfari è inventato, ma come rende l'idea quell'appellarsi del senatore alla complessità delle cose, in risposta alle domande incalzanti del giornalista, e la sua esortazione a evitare le scorciatoie semplicistiche nel condannarlo. Non sarà vero in senso stretto ma quanta verità c'è nel passaggio in cui il presidente confessa il dolore cui lo condannano il pensiero di Moro e la domanda "perché le Br non hanno preso me?". E poi quello in cui egli assume la responsabilità di una pratica del Male che è servita a preservare, difendere, promuovere il Bene. Un film complesso, discutibile come qualsiasi opera che tocca argomenti tanto sensibili, dove la figura più nota di tutta la storia repubblicana, milioni di volte caricaturizzata per le sue inconfondibili caratteristiche fisiche, ci appare per la prima volta nella sua enigmatica dimensione umana e nella sua statura di moderno Nosferatu. Le forzature, le invenzioni, non mancano di restituirci un ritratto denso, realistico e indimenticabile. Il massimo di deformante soggettività produce il massimo di documento» (R. Nepoti, “la Repubblica, 30.5.2008).
 
«Decolla rapidissimo il film, adrenalinico come un'opera rock nerissima, apocalittica versione all'italiana di The Wall. La prima immagine è la testa di Andreotti trafitta dagli spilli dell'agopuntura all'alba, l'ora del lupo, mentre la sua voce sussurrata fuori campo recita il De Profundis per tutti quelli logorati dal potere che non c'è. […] Segue la ritmata, spiazzante, carrellata rock sui delitti misteriosi d'Italia. L'Andreotti di Paolo Sorrentino è identico al vero, anzi di più. Eppure, nonostante il make-up, non è mai una maschera grazie alla sottigliezza di voce e gesto con cui Toni Servillo gli infonde vita da un remoto punto dell'anima. L'Andreotti di Sorrentino è un impassibile battutista, cinico persino con la sua corrente implicata in Tangentopoli, misterioso e glaciale anche con la moglie Livia (bravissima Anna Bonaiuto). Il film di Sorrentino addensa con efficacia confessioni immaginarie di Andreotti e vere lettere […], ma non pretende di spiegare o di accusare, non è, per fortuna, cinema inchiesta. Il Divo è una divagazione attorno alla forza demoniaca del potere, che alterna incubo e lievità da canzonetta. Andreotti è il Mostro, gli altri sono pupi senza nemmeno la dignità del mistero. Lui solo può resistere immobile all'alba, con la scorta, nella città deserta davanti a una scritta sul muro che ne chiede la testa. E solo Sorrentino — che per fortuna ha in mente Petri e non Beppe Ferrara o le fiction Tv — può permettersi di giocare così spericolatamente con il grottesco e i riferimenti a Nosferatu senza perdere di vista la realtà, l'indignazione. […] Ci vuole la giusta, nera, ironia e a Sorrentino, virtuoso dell'immagine, stavolta non manca» (P. Detassis, “Ciak”, giugno 2008).
 
«L’impresa a cui si è accinto Paolo Sorrentino dirigendo Il Divo […] è estremamente ricca di difficoltà. […] La straordinaria avventura personale di Andreotti diventa il pretesto per un disegno di una società politica dove da un lato campeggiano i Salvo Lima, i Cirino Pomicino, gli Sbardella, i Ciarrapico, i Mino Pecorelli, gli Aldo Moro, i Franco Evangelisti, i Vincenzo Scotti, eccetera, mentre dall’altro, solo indirettamente, è evocato il meccanismo di fondo dell’attività di Andreotti politico per eccellenza. […]  Si capisce che il regista è consapevole del fatto che da un lato è strascinato sul terreno scottante della polemica politica di casa nostra […], ma che d’altro lato si apre intorno al “Presidente” un enorme terreno di politica e di ideologia all’ombra del quale si è dipanata buona parte della vita pubblica italiana, dal dopoguerra ad oggi. […] Tanto è affascinante l’idea che muove il film, tanto è a momenti deludente il risvolto narrativo della realizzazione. Ma è certo che si tratta di un’opera di un insolito rilievo politologico, a cui il nostro cinema non ci ha abituato e che può ritrovare motivazioni e giustificazioni in alcune opere ormai lontane di Francesco Rosi» (C.G. Fava,Emme – Modena Mondo”, 2.7.2008).
 
«Nel lungo dibattere intorno a Il Divo si è molto parlato del presunto abbraccio fra Giulio Andreotti e il mafioso Totò Riina, che nel film di Paolo Sorrentino è rappresentato in maniera ipotetica. Scelta opportuna perché l'unica testimonianza sull'allucinante episodio resta quella del pentito Balduccio Di Maggio, al quale i giudici non diedero retta. Strano però che nessuno in questi giorni abbia colto l'occasione per ricordare un altro abbraccio, sicurissimo questo e documentato: quando il 34enne sottosegretario Andreotti, preoccupato per le sorti della Dc alla vigilia delle elezioni dei giugno '53, si recò pellegrino in Ciociaria a omaggiare Rodolfo Graziani. Da poco uscito di galera, scontati altri 4 anni sui 19 inflitti, il famigerato ministro delle forze armate di Salò era stato subito assurto nel pantheon del Msi. E dall'intesa cordiale fra Belzebù l’ex-Leone Neghelli parti la lunga marcia dei neofascisti per venire riaccolti nelle stanze del potere, dove cinquant'anni dopo sono nuovamente di casa» (T. Kezich, “Corriere della Sera Magazine, 12.6.2008).
 
«Film di memorabile prestanza espressiva, che sprigiona la fascinazione del Male (è difficile essere cattivi, diceva Brecht), s'esalta nel gruppo gregario (cast magnificamente trash) e titoli di coda su rosso cardinalizio. Tragedia elisabettiana, con voce off e monologo su Bene e Male, assai dispiaciuto all' interessato. Su Servillo basti dire che è psicosomaticamente memorabile» (M. Porro,Corriere della Sera, 6.6.2008).
 
«Giulio Andreotti come incarnazione del Potere Assoluto, come lo specchio più veritiero per leggere la Storia dell' Italia, come il politico che meglio di tutti ci spiega che cos' è la (nostra) Politica. Niente metafore. Niente ideologie. La concretezza dei nomi e dei cognomi, dei volti riconoscibili: la scommessa di Sorrentino era rischiosa e spiazzante e per questo la sua riuscita è ammirevole e preziosa. […] Sorrentino, che ha scritto da solo la sceneggiatura con la consulenza giornalistica di Giuseppe D' Avanzo, non procede per fatti o denunce, ma piuttosto per immagini, suoni e associazioni visive. […] In questa logica, il grottesco […] diventa la chiave estetica per capire il vero volto di una Politica che altrimenti rischierebbe di ridursi a un campionario di gag» (P. Mereghetti, “Corriere della Sera”, 23.5.2008).
 
«Che cosa annuncia il volto di Toni Servillo ridotto, così sembra, a un mascherone vagamente simile al volto di Giulio Andreotti? È forse una sorta di atellana misera e depotenziata, quella che Paolo Sorrentino ha scritto e diretto, a partire dalle malefatte attribuite all'uomo che Bettino Craxi chiamava Belzebù? […] La questione è posta nella sua brutalità: quella di Andreotti – ovviamente, dell'Andreotti raccontato da Sorrentino – è una gestione accorta del presente, del potere nel presente, non una scelta politica per il futuro. Ed è proprio questa contraddizione fra l'immaginario popolare e il giudizio di uno statista a suggerire un'eco, o meglio una "duplicazione dissonante" fra mitologia e realtà. […] E le esplosioni, gli spari, il sangue che irrompono improvvisi e violenti fra le immagini, sconvolgendole, niente più hanno della farsa. Né farsesco è il tentativo di Andreotti di giustificare le proprie scelte politiche, e dunque proprio se stesso come uomo. Quanto male occorre saper fare, domanda appunto fra sé e sé, per riuscire a produrre il bene? C'è, dietro queste parole, la più antica e la più terribile delle giustificazioni dei potenti. […] È qui il senso più doloroso del grottesco de Il Divo: in questa eco dissonante tra mitologia dei sudditi e verità del potente. O se si vuole: tra il riso che la maschera suggerisce in superficie,e l'indignazione che ne nasce dal profondo» (R. Escobar, “Il Sole 24 Ore, 1.6.2008).
 
«Si entra dentro a Il Divo come si potrebbe entrare nel ritmo vorticoso di Quei bravi ragazzi: questione di stile, spesso strabordante. Sorrentino spiega il Glossario italiano fatto di acronimi (BR, P2, DC ecc…) poi si assesta sul viso frontale, di profilo, la gobba del senatore a vita. Carrellate, ralenti, grandangoli dal basso: arrivano gli uomini fidati, quelli delle correnti andreottiane, il circo barnum degli Sbardella, Ciarrapico, Evangelisti, Cirino Pomicino, Salvo Lima. L'allegoria è evidente, il mascheramento degli attori è la trovata del secolo. Non ci sono sosia e nemmeno cloni. Il trucco è scivolare addosso al personaggio raccontato ed entrare e uscire continuamente dalla maschera. Così ci s'immerge nella finzione del film come in una vasca purificatrice delle malefatte della politica italiana dell'ultimo trentennio. Non vi è colpevolizzazione o giudizio tranciante sul divo, ma una sua divertita ed esorcizzante rappresentazione mascherata, condita continuamente delle solite, oramai pesantissime, battutine tipicamente andreottiane al posto di una normale risposta. […] Il regista napoletano, per portare Il Divo alla sbarra, inquadra continuamente Caselli che si spruzza lacca sui capelli e rende l'entrata in aula di tribunale un piano sequenza alla Scorsese. Fare i conti con questa proposta visiva è d'obbligo» (D. Turrini, “Liberazione, 24.5.2008).
 
«Andreotti come astrazione, maschera del potere democristiano seppellito con Tangentopoli e ormai fuori corso. La cattiveria di Sorrentino nell'attribuirgli tutti i misfatti d'Italia, “tranne le guerre puniche”, dalla “strategia della tensione” al patto con la mafia fino ai delitti eccellenti ripropone la vulgata popolare del diabolico con humor, del cinico sapiente che maneggia la politica per quel che è, “una cosa sporca”, e “fa del male a fin di bene”. […] Paolo Sorrentino è stato coraggioso a portare alla sbarra cinematografica il mito democristiano, ma ha eluso l'attualità del suo lascito e mancato lo “scandalo”. Andreotti ha forgiato questa Italia, quella della corruzione, dell'immoralità P2 al governo, della censura, quella del delitto sociale in nome della “ragion di stato”. Altro che “viale del tramonto”, altro che intelligenza, cultura e abilità contro la rozzezza del ceto politico di oggi. Non bastano le parole alate di Eugenio Scalfari (Giulio Bosetti, che nel film lo intervista) e la consulenza sui dossier dei servizi del giornalista di Repubblica Giuseppe D'Avanzo per chiudere il cerchio. […] Il divo, paradossalmente, involontariamente è un film consolatorio, allontana i fantasmi e i mostri relegandoli al folklore e al passato. Eppure sono ancora qui» (M. Ciotta, “il manifesto, 24.5.2008 ).
 
«Con Il divo Sorrentino non solo sferra la più violenta accusa alla classe politica italiana vista dai tempi di Todo Modo, ma cambia le regole della rappresentazione di quella stessa classe. Siamo in una specie di "quarta dimensione" dove la citazione di nomi, cognomi e soprannomi (lo Squalo, il Ciarra, il Limone, sua Sanità...) si mescola con effetto "pulp" alla deformazione grottesca dei volti (lo stile del trucco sfiora Dick Tracy), alle immagini d'archivio […]. L'effetto è potente, a tratti sconcertante. […] Intanto la colonna sonora alterna l'elettronica a Vivaldi, i Ricchi e Poveri a Sibelius, ed è questo caos di forme e di registri che ci resta addosso. Che cosa abbiamo visto, una farsa, una tragedia, un film dell'orrore? Chissà, forse non c'era proprio niente da vedere. O magari è il nulla del potere, quello di cui parla Moro nel finale, che Sorrentino e il suo grande cast Servillo, Anna Bonaiuto, Piera Degli Esposti, Flavio Bucci, Carlo Buccirosso ci hanno chiamati a contemplare» (F. Ferzetti, Il Messaggero, 23.5.2008).
 
«Il divo è un film molto complesso, capace di coniugare stili differenti. Da un lato c’è il modello di quella parte del cinema di intervento politico italiano degli anni Settanta che rifiutava il realismo piatto della produzione militante: Il caso Mattei (1972) di Rosi o Todo modo (1976) di Petri. Ma dall’altra c’è anche tanto cinema internazionale contemporaneo, in primis Tarantino. Il pregio più grande del lavoro di Sorrentino, credo, sta nel fatto che egli non spreca le sue capacità visive (ma dovrei dire audio-visive: anche la colonna sonora del Divo è assai densa) in un vuoto formalismo, in una inutile esibizione di bravura, ma lega questa sua immaginazione barocca a un lavoro, che è stato sicuramente lungo e difficilissimo, di ricerca storica e poi di sceneggiatura, che però, appunto, non si traduce nel banale docu-drama, ma viene filtrato, distillato, in un film al contempo ricco di momenti di analisi storico-politica e di pura stilizzazione e reinvenzione del reale. Penso, ad esempio, alla scena dell’incontro tra Andreotti e il gatto. L’uomo della Prima Repubblica, con la sua gobba alla Nosferatu, attraversa i saloni del palazzo, foderati di quadri e di arazzi, con i corazzieri che montano la guardia alle porte, e all’improvviso si trova di fronte un gatto bianco, con un occhio giallo e uno azzurro. Queste due creature si fissano a vicenda, stupite, ognuna incapace di penetrare il mistero dell’altra, ognuna chiusa nel proprio mondo. Da una parte, sembra la rivisitazione di un duello di Kill Bill (2003-2004). Dall’altra è una rappresentazione perfetta, ironica e penetrante, della dimensione del Potere, della Prima come della Seconda Repubblica, un Potere che parla un suo idioletto misterioso, come la lingua segreta degli animali» (G. Alonge, obelix.cisi.unito.it/turindamsreview/sezione). 




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