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ENCICLOPEDIA DEL CINEMA IN PIEMONTE

Lungometraggi



A cavallo della tigre
Italia, 2002, 35mm, 102', Colore

Altri titoli: Jail Break, Riding the Tiger, Au cheval du tigre

Regia
Carlo Mazzacurati

Soggetto
Carlo Mazzacurati, liberamente ispirato all’omonimo film di Luigi Comencini

Sceneggiatura
Franco Bernini, Carlo Mazzacurati, Lina Nerli Taviani, Paola Bizzarri

Fotografia
Alessandro Pesci

Operatore
Giovanni Gebbia

Musica originale
Ivano Fossati

Suono
Alessandro Zanon

Montaggio
Paolo Cottignola

Effetti speciali
Fabio Traversari

Scenografia
Paola Bizzarri

Costumi
Lina Nerli Taviani

Trucco
Ermanno Spera

Aiuto regia
Pierantonio Novara

Interpreti
Fabrizio Bentivoglio (Guido), Tungel Kurtiz (Fatih), Paola Cortellesi (Antonella), Boubker Rafik (Hamid), Marco Messeri (Iguana), Roberto Citran (il commissario Carucci), Marco Paolini (Faustino), Elisa Lepore (la moglie di Guido), Massimo Molea (l'avvocato), Manrico Gammarota (il sovrintendente), Emanuela Grimalda (Deborah), Carla Signoris (la direttrice del carcere), Irina Brigenti (Nina), Semsudin Mujic (Arjan), Paolo Maria Veronica (vigilante)

Casting
Francesco Vedovati

Direttore di produzione
stripslashes(Ladis Zanini)

Ispettore di produzione
Fabio Mancini, Stefano Benappi

Produttore esecutivo
Marco Valsania, Marco Poccioni

Produzione
Marco Poccioni, Marco Valsania per Rodeo Drive, Rai Cinema

Distribuzione
01 Distribution

Note
2780 metri.
Remake del film omonimo di Luigi Comencini (1961).
Operatore steadycam: Giovanni Gebbia; assistente operatore: Andrea Legnani; direttore d’orchestra: Paolo Silvestri; canzoni: Raining UpMy Dor (Ivano Fossati), Lei verrà (Mango); suono Dolby Digital; montaggio del suono: Filippo Bussi; assistente al montaggio: Stefano Cottignola, Stefano Quaglia; assistenti scenografo: Alessandra Mura, Elena La Rocca; assistente costumista: Alessandra Toesca; collaboratori agli effetti speciali: Stefano Marinoni, Pasquale Catalano, Massimo Ciaraglia, Edmondo Natali, Germano Natali, Roberto Cimatti; assistenti alla regia: Francesco Cressati, Carlo Pettenello, Paola Rota; altri interpreti: Salvatore Mortellitti (sovrintendente), Sergio Pierattini (medico del carcere), Paolo de Vita (barbone), Giuseppe Antignati (amico al bar), Paolo Conte (impiegato Ikea), Giovanni Battaglia (vigilante), Sergio Grossini (vigilante), Marca Coco (madr bambino Ikea), Gianluca Frigerio (padre bambino Ikea); organizzazione generale: Guido Cerasuolo; location manager: Simona Serafini; coordinamento e segreteria di produzione: Giorgia Pellegrini; segretari di produzione: David Giorgio, Fabrizio Prada; segretaria di edizione: Luisa Gamba; storyboard: Davide Orlandelli; Amministrazione:Roberto Ornaro, Daniela Berardi;  
 
Locations: Torino (Carceri Nuove, piazza Sabotino, rive del fiume Dora, piazza Arbarello), Roma, Liguria.
 
Film realizzato con la collaborazione della Film Commission Torino Piemonte e con il patrocinio della Città di Torino.
 
 
 
 




Sinossi
Guido, guardia giurata oppressa dai debiti, tenta di risollevare la propria sorte simulando la rapina dell'incasso del supermercato milanese per cui lavora, con la complicità della compagna Antonella. Arrestato, viene coinvolto, a pochi giorni dalla fine della pena, nell'evasione dell'anziano turco Fatih e del marocchino Hamid. A Torino quest’ultimo abbandona i compagni; Guido e Fatih raggiungono a piedi Genova per trovarvi uno Antonella e l’altro una nave per raggiungere la Turchia. Guido, braccato dai poliziotti, viene aiutato da Antonella nella fuga.




Dichiarazioni
«Mi viene naturale pensare a questo tipo di film come unico mezzo per poter parlare della società senza fare film di denuncia o documentari» (C. Mazzacurati, “Notizie d'Essai” n. 54, 31.10.2002).
 
«Bentivoglio riesce a variare impercettibilmente fra l'inizio e la fine della storia, dando veramente un grande esempio di come un attore possa far suonare il suo corpo come uno strumento complesso. La Cortellesi ha un talento spaventoso, può fare quasi tutto quello che vuole: cantare, ballare, commuovere, far ridere» (C. Mazzacurati, in G. Pignatelli, E. Lucherini, “Ciak” n. 8, agosto 2003).
 
«Mazzacurati voleva raccontare questa storia e nella storia c'era questo personaggio che volevo fare da anni, una specie di piccolo malavitoso da bar milanese, che vive al di sopra delle sue possibilità e usa la vita come una slot-machine, un po' figlio delle canzoni di Gaber o Jannacci e dei racconti di Beppe Viola, che amo molto» (F. Bentivoglio, “Ciak” n. 11, novembre 2002).





“Una signora cinese [...] mi diceva sempre che bisogna imparare a trasformare la paura in coraggio, l'energia negativa in forza buona. Lei diceva che [...] tutto questo si chiama cavalcare la tigre”. Così inizia A cavallo della tigre, con le parole di Deborah, figlia di Antonella, che, citando una frase della colf cinese, inquadra la vicenda e l'ottica che sottende la narrazione. “Questa è la storia di Guido e di mamma e di come ebbero il coraggio di saltare ”, dirà la bambina, quasi in chiusura del film.
 
«A cavallo della tigre. Ciò che significa è Deborah, la bambina, a spiegarlo: in certi momenti – le ha rivelato una colf cinese – bisogna saper trasformare la paura in coraggio. Così faranno Guido e Antonella che, tallonati dalla polizia, debbono lanciarsi da una rupe per trovare un'improbabile, miracolosa salvezza. Una giusta salvezza, vorrei aggiungere, perché nella visione dell'autore il destino dei poveri diavoli accumula meriti dalle piccole azioni, da una dignità invisibile secondo la quale, spesso, il fallimento è lo specchio dell'onesta differenza degli ultimi […] L’Italia che traspare dal caos febbricitante nel quale si dibattono i suoi personaggi è un paese ormai illeggibile con il fin troppo usato filtro post-moderno; un paese che, smarrendo la propria memoria, inventa ogni giorno nuove e”sofisticate” forme di degrado. A cavallo della tigre si chiude nel clima di un'impossibile speranza, è vero, ma sembra evidente che il recupero è tutto interno alla “regola” fantastica e alla sua scanzonata funzione provocatoria. [...]  Ecco infine l’apoteosi, cioè l'happening di un pauroso salto nel vuoto che provoca una surreale levitazione di oggetti, come se il cielo fosse una tela o lo spazio una scatola gigante dentro la quale vien meno la legge di gravità» (T. Masoni, “Cineforum” n. 1/421, gennaio 2003).
 
Guido, Antonella e Deborah si imbarcano per la Turchia, emigranti al contrario, per forza, seguendo le ultime parole di Fatih morente: “Vai, vai tu [...] Guido”. “Non abbiamo né soldi, né vestiti, ma non dobbiamo preoccuparci, adesso siamo di nuovo tutti e tre insieme” dice la bambina. “Ci hanno detto che, dove andiamo, [...] c'è una legge che dice che non possono metterli in prigione e riportarli in Italia se loro proprio non vogliono”. È ricostituita la situazione iniziale, l’equilibrio a tre che, forse, farà avverare le parole di Guido, poco prima della rapina: “e poi la ruota gira [...] è il calcolo delle probabilità, il calcolo dei grandi numeri, no? È matematica”. Perché, conclude Deborah, “certe volte si ha paura di tutto, ma basta fare un respiro profondo e passa”.
 
«Remake molto libero di un film bello e sfortunato girato da Comencini nel '61, A cavallo della tigre è un racconto ondivago, che incrocia alla rinfusa genere, tempi e stilemi, girando, vagando e deambulando quasi sempre a vuoto. Come critica a un “Paese senza”, il film è inerte e non colpisce, perfino Fabrizio Bentivoglio non sembra crederci granché e la Cortellesi ha poco da dire. È una specie di gita esistenziale in cui si mescolano gangster, film carcerario, un po' di sentimenti e l'epica virile del galeotto sepolto in mare». (M. Porro, “Corriere della Sera”, 9.11.2002).
 
«Mazzacurati non cerca di aggiornare i meccanismi narrativi della commedia all'italiana (come fanno con risultati interessanti Cristiana Comencini e Paolo Virzì). Piuttosto cerca di dare una risposta all'interrogativo dell'evaso Manfredi: ma chi ha detto che il mondo fuori dalla prigione sia meglio di quello dentro? Sono passato più di quarant'anni dal primo film e la risposta è, se possibile, ancora più cupa». (P. Mereghetti, “Io Donna”, 23.11.2002).
 
«A cavallo della tigre riporta sullo schermo i personaggi minori di Carlo Mazzacurati, i suoi perdenti sempre in fuga da Padova, come da Torino o da Genova, in cerca dell'amore, come di una casa o di una patria. Gli umili di Mazzacurati fuggono sempre per ritornare. La loro corsa è mossa da un desiderio che è il grande protagonista di questa storia come di quelle che l'hanno preceduta: la nostalgia. Si sono persi, un giorno, per caso, i suoi eroi senza conoscerne, forse, neanche le ragioni, ma sanno che per ritrovarsi devono ritornare alle radici, a quei sentimenti che più di altri permettono di sentire ancora di appartenere. Appartenere a una donna, a un uomo, a una patria, a una nazione, poco importa. II luogo a cui apparteniamo e dove solo siamo appagati non è necessariamente un luogo fisico o geografico; è il luogo in cui smettiamo di sentire freddo, in cui sentiamo di essere finalmente arrivati. […] Ed è bravo ancora una volta l'autore a raccontarci i cortocircuiti della mente, quelli generati dai grandi dolori e da cui troppo spesso dimentichiamo di riaverci, restando forse in attesa di un segnale o di una parola, che ce ne affranchi definitivamente. Allora gioca con le immagini e con la musica sempre più illuminata e illuminante di Ivano Fossati; i ricordi si mischiano, corrono avanti e ritornano indietro, per ricomporsi nella memoria del suo attore feticcio, Fabrizio Bentivoglio, che è tutt'altro che simulacro vuoto, pieno com'è della tristezza dei suoi illustri antenati, di cui ripropone il trucco e la maschera amara» (M. Gandolfi, “Film” n. 60, novembre-dicembre 2002).
«La fuga, principale topos del cinema di Carlo Mazzacurati, è simbolo di scoperta, di trauma e risveglio, d'apparente normalità alla quale si contrappone un'eccezionalità unica, proprio perché generata da una coscienza, da un'essenza liberata dall'insopportabile cappa della vita quotidiana. Persino il rapporto fra vittima (Guido) e carnefice (Faith, uno degli ergastolani che lo costringerà a scappare) mostra tutta la sua umanità, nata questa volta dal semplice ascolto. II visivo si trasforma a poco a poco nel sonoro, perde il suo presunto valore oggettivo per accarezzare quelle corde intrise di dolore e rancore che hanno bisogno di essere pizzicate. Attenzione, in A cavallo della tigre non ci troviamo di fronte ad un confetto rosa dal sapore dolciastro, ricco di buoni sentimenti e dalla morale fin troppo scontata. Il regista riesce ad elaborare una precisa commistione fra ciò che si vive, si potrebbe vivere e si vivrà, in un futuro da creare totalmente, partendo da quegli enormi massi dove siedono i due innamorati e la bambina, mentre fluttuano in un mare apparentemente calmo. Quella tappa non è un regalo è una conquista, è un imprecisato punto nello spazio-tempo che non è possibile individuare in nessuna carta geografica, troppo piccola perché lo contenga, troppo calcolata perché lo rappresenti. Lui è dentro, aldilà e oltre quel tiepido fotogramma che vuole raccontare, che ha bisogno di un appoggio. Non si trova nei soldi rubati, nella promessa d'eterno amore, in quel dente estratto con violenza e inconsapevole amicizia da Guido. È li e questo è sufficiente per catapultare i nostri personaggi dove è giusto che vadano, seguendo un istinto rigeneratore, un sorriso dal sapore di fiele» (D. Zanza, “Segnocinema” n. 119, gennaio-febbraio 2003).
«Con i due film gemelli La lingua del santo (2000) e A cavallo della tigre (2002), virando più esplicitamente verso la commedia dai toni picareschi e dalle conclusioni vagamente edificanti, Mazzacurati imprime uno scarto ai suoi attraversamenti paesaggistici del Nord Italia. Il pattern del film è sostanzialmente lo stesso: una coppia di spiantati che - costretta insieme dal caso e dalla sorte - attraversa a piedi la pianura carica di ferite post-industriali, di tralicci, di relitti arrugginiti, taglia i boschi sospesi nel tempo dei colli Euganei ma anche si ferma di fronte alla placida e rassicurante laguna o alle scogliere scoscese a picco sul mare, scoprendo sulla strada che il paesaggio protegge, nasconde, ingloba per poi restituire chi vi si è immerso alla propria realtà ma avendogli conferito maggiore consapevolezza. È questa infatti che consente a Guido (Fabrizio Bentivoglio) e Antonella (Paola Cortellesi) di saltare dalla scogliera […]. Lo sguardo di Mazzacurati su questi ultimi paesaggi del Nord diventa ancora più mobile, quasi incapace di fermarsi (anche grazie alla maggiore disponibilità di mezzi) in uno slittare con dolly e sky cam che resta comunque attento a coglierne l'identità profonda. Un paesaggio altrimenti relegato nella marginalità anonima del visibile cinematografico, si ammanta così di una patina rappresentativa che finisce per potenziare la sua specificità figurale spettacolarizzandola» (C. Borroni, “Quaderni del CSCI” n. 6, 2010).


Scheda a cura di
Damiano Cortese

Persone / Istituzioni
Carlo Mazzacurati
Franco Bernini
Lina Nerli Taviani
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Marco Paolini
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Ladis Zanini


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