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ENCICLOPEDIA DEL CINEMA IN PIEMONTE

Lungometraggi



I nostri anni
Italia, 2000, 35mm, 90', B/N

Altri titoli: Our Years

Regia
Daniele Gaglianone

Soggetto
Daniele Gaglianone

Sceneggiatura
Giaime Alonge, Daniele Gaglianone

Fotografia
Gherardo Gossi

Musica originale
Massimo Miride, Giuseppe Napoli, Monica Affatatato, Daniele Gaglianone

Suono
Giuseppe Napoli

Montaggio
Luca Gasparini

Effetti speciali
Nadia Aratari

Scenografia
Valentina Ferroni

Costumi
Marina Roberti

Trucco
Nadia Aratari

Aiuto regia
Alessandro Scippa

Interpreti
Virgilio Biei (Alberto), Piero Franzo (Natalino), Giuseppe Boccalatte (Umberto), Massimo Miride (Alberto Giovane), Enrico Saletti (Natalino giovane), Luigi Salerno (Silurino), Diego Canteri (Umberto Passoni giovane), Carlo Cagnasso, Luciano D’Onofrio e Stefano Ferrero (partigiani feriti), Giustino Ballato, Maurizio Bartolini, Michele Castellano, Alessandro Cristofori, Evandro Fornasier



Produzione
Gianluca Arcopinto per Zebra productions, con la partecipazione di Tele +

Distribuzione
Pablo

Note

2400 metri.

Assistente operatore: Ezio Gamba; aiuto operatore: Gianluca Fava; fotografi di scena: Marco Mabritto, Ettore Saletti; Canzone: Ti ho visto in piazza dei Truzzi Broders; microfonista: Elena Denti; montaggio del suono: Marco Furlani; assistenti al montaggio: Anita Cacciolati, Luigi Michetti; assistente costumista: Monica Saracchini; aiuto costumista: Paola Ronco; assistente alla regia e casting: Monica Affatato, Enrico Saletti; altri interpreti: Massimo Gavagna, Tiziano Lamberti, Marco Leonardi, Domenico Vassano, Mauro Strano e Davide Teresi (fascisti), Alessandro Amaducci (partigiano morto), Marco Nabritto ed Ettore Saletti (altri partigiani), Leonardo De Pilla (intervistatore), Monica Affatato (intervistatrice), Marisa Bonetti (direttrice casa di cura), Luciana Oleriu (infermiera), Rosalba Giorio (madre Silurino), Nicolò Breda (Silurino bambino), Orazio Quaglia ed Attilio Gianola (carabinieri), Corrado Borga (maresciallo carabinieri), Panon (barista), Joe Velloni (autista litigio); segretaria di edizione: Fernanda Selvaggi; assistente di produzione: Adelina Arcidiaco; segretari di produzione: Clizia Ardissone, Rodolfo Colombara, Andrea Galafassi, Emanuela Peyretti, Davide Ponzetto; amministrazione: Barbara Casadei; organizzazione: Lia Furxhi.

Locations: Alice Superiore, Rueglio, Settimo Vittone, Traversella, Vico Canavese, Strambino, Brusasco (TO)


Selezionato alla Quinzaine des Réalisateurs a Cannes nel 2001, I nostri anni ha vinto il premio CinemAvvenire per la migliore opera prima al Torino Film Festival del 2000. Si è aggiudicato anche altri riconoscimenti: premio “Sacher d’Oro” come miglior opera prima, premio per i migliori attori protagonisti al Valencia Film Festival, premio per il Miglior Film al Festival del cinema italiano di Villerupt, premio per il Miglior Film al Festival Internazionale di Cinema di Montagna di Autran, premio per il Miglior Film al Jerusalem Film Festival 2001 e Premio della rivista culturale “Lo Straniero”.





Sinossi
Alberto e Natalino sono due anziani ex-partigiani che durante la Resistenza erano legati da grande amicizia tra di loro; un terzo amico, Silurino fu ucciso dai fascisti. Alberto entra in una casa di riposo; qui inizia a frequentare un altro ospite della struttura, costretto su una sedia a rotelle; scopre però che questi è Umberto Passoni, il quale durante gli anni della Resistenza comandava la banda di brigate nere che compì l’eccidio del gruppo di partigiani di cui Alberto, Natalino e Silurino facevano parte. Deciso a vendicare il massacro avvenuto oltre mezzo secolo prima, Alberto raggiunge Natalino, che vive da solo in montagna, e lo convince a seguirlo alla casa di riposo, con l’intento di uccidere l’ex fascista.



Dichiarazioni

«I nostri anni nasce dall’incontro con ex partigiani e dall’ascolto delle loro storie. Esperienze fatte e vissute quando loro erano giovani, più giovani di me che li stavo intervistando, mentre di fronte a me avevo dei vecchi. La genesi del film è sicuramente legata alla collaborazione con l’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza (ANCR) e all’incontro con Paolo Gobetti, e all’opportunità che ho avuto di conoscere molti ex partigiani, in particolare quelli del video Cichero e soprattutto Giambattista Lazagna. Spesso alla fine delle interviste condotte da Paolo chiedevo ai testimoni come si sarebbero comportati se si fossero imbattuti non in un generico vecchio nemico, ma in un individuo direttamente responsabile d un loro grande dolore provato ai tempi della lotta partigiana. Dalla loro risposta emergeva l’atteggiamento generale nei confronti di quel loro passato» (D. Gaglianone, in G. Carluccio, A. Catacchio, Absolute beginners. Gaglianone/Verra, Fai, Torino, s.i.d.).

«Il riferimento principale è stato il cinema russo degli anno 70-80; […] registi come Tarkovski, Klimov, Sokurov e pochi altri. Questi film, rivisti parecchi anni dopo le mie frequenazioni cinefile, mi hanno colpito per la loro incredibile modernità di linguaggio» (G. Gossi, Ibidem).






Daniele Gaglianone esordisce nel lungometraggio con una storia di impotenza e ossessione: impotenza di fronte al massacro di un compagno durante la Resistenza, ossessione per il ricordo che continua a dolere anche dopo tanti anni. Ancora una volta il regista anconetano mescola presente e passato (in particolare, il periodo storico da lui prediletto, la Resistenza) con uno stile ruvido, rigoroso ed essenziale. I rimandi tra presente e passato sono resi dal regista anche tramite la scelta dei luoghi: ad esempio i pilastri di una stazione ferroviaria deserta (quella di Torino Lingotto), in cui all’inizio del film Alberto passeggia da solo, evocano visivamente le betulle dei boschi in cui si consumarono le vicende del protagonista da giovane.

«Non so se si possa dire che il film di Daniele Gaglianone è un film sulla Resistenza. Certamente è un film sulla memoria della resistenza, laddove però l’accento è, propriamente, sulla parola “memoria”. Memoria intesa nel senso di un raccordo tra un adesso, un oggi, un presente, e un prima, un ieri, un passato. E questo raccordo si dà come una commistione, una sovrapposizione indiscernibile, un incastro, tra frammenti di tempo. Un tempo, comunque, soggettivo, lirico, dove i riferimenti alla Storia (con la esse maiuscola) sono fortemente filtrati da angolazioni individuali, da storie (con la esse minuscola) che la attraversano e ne vengono attraversate, definitivamente, ma in una prospettiva interiore. […] I nostri anni è anche un film sulla vecchiaia in senso biologico ed esistenziale, sulla devastazione fisica. Sulla memoria in senso storico, ma anche sulla memoria in senso neurobiologico» (G. Carluccio, in G. Carluccio, A. Catacchio, Absolute beginners. Gaglianone/Verra, Fai, Torino, s.i.d.).

Il modo in cui il regista parla di Resistenza e di memoria non è dunque affatto banale, perché «trova un’angolazione originale nel recuperare della lotta resistenziale il sentimento di una quotidianità a rischio tra fame, freddo e paura piuttosto che gli aspetti ideologico-politici. Non perché il film manchi di un punto di vista (non c’è dubbio su qual è “la parte giusta”, come da recente intervento di Norberto Bobbio), ma al giovane cineasta i due protagonisti […] interessano soprattutto in quanto portatori, nella mediocre piattezza dell’oggi, del segno di un vissuto vero, del soffio di un impeto giovanile che ancora vibra» (L. Tornabuoni, “La Stampa”, 25.11.2000).

Gaglianone insomma riesce a soggettivizzare un argomento che è “difficile” da affrontare, quello del “peso” che la Resistenza ha nella vita individuale e collettiva di oggi. Egli compie questa operazione attraverso una raffinata ricerca sulla forma, sullo stile, sui mezzi espressivi che il cinema gli mette a disposizione.

In questo film assistiamo ad una raffinatissima sperimentazione a livello fotografico, per cui ogni personaggio ed ogni situazione sono caratterizzati da particolari soluzioni visive: ad esempio la perenne inquietudine di Alberto è rappresentata tramite continue carrellate che riprendono il personaggio nella casa di riposo, mentre Natalino – che vive un’esistenza solitaria, con i ritmi del tempo antico – viene ripreso con inquadrature fisse. Inoltre nel film, per distinguere i diversi “climi” interiori e sancire la distanza tra il presente, la memoria del passato e la visione angosciosa di esso, sono stati utilizzati quattro diversi tipi di pellicola a 16mm con diversa sensibilità, una pellicola Super8 e una pellicola a colori poi stampata in bianco e nero. Quest’ultima produce immagini sgranatissime e risulta funzionale per i momenti in cui prevale la dimensione dell’incubo. «Queste differenze non sono forse percepite coscientemente dallo spettatore, ma credo che abbiano un peso fondamentale nella resa emozionale del film» (D. Gaglianone, Ibidem). Quella di Gaglianone è infatti essenzialmente una ricerca sulla possibilità che il cinema offre di far sperimentare al pubblico l’esperienza soggettiva dei grandi eventi della storia umana.

«Riconciliarsi con i vecchi ne­mici, con quei fascisti che tor­turarono e fecero strage dei partigiani, non è possibile. Netta presa di posizione, in epoca di revisionismi e slanci conciliatori, dell'esordiente al lungometraggio Daniele Ga­glianone, che firma I nostri an­ni avendo alle spalle molteplici esperienze nel cinema corto. […] I nostri anni propone una com­plessa tessitura formale, che dà spessore problematico a un intreccio dal sapore volutamente paradossale. Girato in bianco e nero, c'è anzitutto un intenso lavoro sulla luce: ora forte­mente contrastata, ora cupa e grigia, ora sovraesposta. L'uso frequente della macchina a ma­no mira al coinvolgimento del­lo spettatore, ma anche alla de­stabilizzazione di una visione accomodante. Il montaggio, in­fine, estremamente elaborato, punta direttamente a un corto circuito temporale, che scom­pone non solo il macro ordine cronologico tra passato e presente, ma la stessa successione temporale degli atti più banali, come sedersi e mangiare, attra­versare gli spazi della casa di cura, e così via. Non altrettanto elaborata è purtroppo la struttura drammaturgica del film, a tratti ridondante, bloccata nell'ossessiva ripetizione di al­cuni passaggi narrativi, che non contribuiscono a dare lie­vito e respiro ai personaggi e alla loro fraterna amicizia» (A. Medici, “Cinemasessanta” n. 4/260, luglio-agosto 2001).
 
«Dalla Nubericordoossessione, alla Resistenza. Sogno straubiano concretizzatosi in realtà. Passaggio cruciale che dal "sogno di una cosa", passa allo sguardo oggettivo e disperato sui contorni di un qualcosa che non si può cambiare. [...] E il film di Gaglianone è una riflessione sul Tempo attraversato dal flusso vitale del ricordo, una meditazione astratta (eppure attraversata da straordinari furori "fattuali") sull'Esistenza e il suo Senso. Senso dell'agire, senso del pensiero, senso dell'atto ri-figurato in una mancanza di tempo, che occupa con la propria inquietudine ancestrale ogni brandello di carne, ogni porzione di spazio. Ed è proprio l'ansia del ripercorrere e di ri-vivere un certo passato che ci salta agli occhi con l'evidenza chiara dell'utopia, con la forza parossistica della dichiarazione d'intenti mostrata sul suo farsi. [...] in Gaglianone la parola perde quasi di senso (tutte le sequenze a esempio nelle quali Alberto proferisce parole incomprensibili) rispetto all'immagine. Ai suoi contorni. AI suo colore. Dialettica del senso visivo quindi, messa in atto da una messinscena che lavora sul senso del visto, ma anche del sentito per tessere una toponomastica impazzita di voci, suoni, lamenti, imprecazioni. Tutte unità sparse, svincolate da un centro immobile, inserite all'interno di un tessuto molecolare che assume tante forme diverse quante sono i livelli di fruizione del reale, del visibile, del filmato. Solo da quest'ottica è possibile ricavare i contorni precisi dell'immagine. Centrale, ma al tempo stesso decentrata da un contesto fruitivo organico e veloce. Lanciandoci in un paradosso pericoloso, ma interessante, potremmo definirla anche come la grande assente dell'opera» (F. Ruggeri, “Film” n. 52, luglio-agosto 2001).

«[...] oltre la metà del film, l nostri anni cambia registro, per passare dal dramma della rievocazione alla commedia in stile Vivere alla grande di Martin Brest, in cui la memoria del passato sembra lasciare spazio allo sberleffo alla vita, al gesto impossibile che dia ancora un senso all'esistenza e insieme riconcili i protagonisti con se stessi e con i propri ricordi. La dimensione visiva stessa del film muta il suo carattere fortemente emotivo della prima parte, in un gioco di sguardi, occhiate, coincidenze: il guasto all'automobile, l'arrivo dei carabinieri, la figura del rockettaro all'osteria. Tutto viene visto e vissuto con ritrovata ironia, con la scoperta di una nuova identità, anche all'ultimo momento, davanti all'aguzzino di un tempo. Qualsiasi ne sia l'esito finale, potranno nuovamente ritrovarsi nella radura del bosco di betulle, con Silurino e gli altri, a ridere e gioire. Gaglianone [...] conosce la materia filmica e la storia della Resistenza: così si giustificano anche le immagini sgranate, in bianco e nero. Ma più che un film sulla, I nostri anni - quelli che i protagonisti hanno vissuto e lasciato per strada - è un film della resistenza, quella attuata dagli stessi per continuare a vivere nonostante i rimorsi e i complessi di colpa. [...] Cinema-verità e verità del cinema: dimenticare, andare oltre, perdonare, vendicare sono parole chiave sino al momento dell'azione. Poi esse diventano solo pretesti: la Resistenza è parte dell'Esistenza, parte integrante del mestiere di vivere. La riconciliazione è invece un atto personale, che aiuta a sopravvivere: i due vecchi partigiani cercano - nel gesto - qualcosa che li aiuti a sopportare il peso della memoria, a ritrovare dimensioni affettive e storiche ormai perdute. Ogni altra riconciliazione è una forzatura storica» (M Gottardi, “Segnocinema” n. 110, luglio-agosto 2001).

«I nostri anni non è un film facile, ma è un film “povero” che usa (osa) un linguaggio emotivo (Gaglianone impasta video, pellicola e super8) dove conta il sentire ma anche l'udire (i rumori, i suoni, i bisbigli, la musica), il vedere ma anche il percepire, il ricordare ma anche lo specchiarsi, realtà ma anche il sogno. E intromettono molto bene questo stream of consciousness poetico-politico i due interpreti del film, Virgilio Bei e Piero Fanzo, attori non professionisti ex militanti della Resistenza» (F. Bo, “Il Messaggero”, 18.5.2001).

Infatti i protagonisti, Piero Fanzo e Virgilio Biei, sono stati partigiani, e quest’ultimo ha avuto durante la Resistenza un’esperienza molto simile a quella mostrata nel film. Giuseppe Boccalate, che interpreta il ruolo dell’ex fascista, ha qualche esperienza di recitazione in un gruppo teatrale dell’Università della Terza Età.



Scheda a cura di
Davide Larocca

Persone / Istituzioni
Daniele Gaglianone
Giaime Alonge
Gherardo Gossi
Giuseppe Napoli
Luca Gasparini
Alessandro Scippa

Luoghi
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