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ENCICLOPEDIA DEL CINEMA IN PIEMONTE

Lungometraggi



Il cammino della speranza
Italia, 1950, 35mm, 101', B/N

Altri titoli: Path of Hope, The Road to Hope

Regia
Pietro Germi

Soggetto
Federico Fellini, Pietro Germi, Tullio Pinelli, dal romanzo Cuori negli abissi di Nino De Maria

Sceneggiatura
Federico Fellini, Tullio Pinelli, Pietro Germi

Fotografia
Leonida Barboni

Operatore
Mario Parapetti, Alfieri Canavero

Musica originale
Carlo Rustichelli

Suono
Mario Amari

Montaggio
Rolando Benedetti

Scenografia
Luigi Ricci

Trucco
Attilio Camarda

Aiuto regia
Marcello Giannini, Salvatore Rosso

Interpreti
Raf Vallone (Saro Cammarata), Elena Varzi (Barbara Spadaro), Saro Urzì (Ciccio), Franco Navarra (Vanni), Liliana Lattanzi (Rosa), Mirella Ciotti (Lorenza), Saro Arcidiacono (il ragioniere), Francesco Tomolillo (Misciu), Paolo Reale (Brasi), Giuseppe Priolo (Luca), Angelo Grasso (Antonio), Assunta Radico (Beatificata), Renato Terra (Mommino), Francesca Russella (nonna), Giuseppe Cibardo (Turi)

Ispettore di produzione
Antonio Musu

Produttore esecutivo
Sergio Barbonese

Produzione
Luigi Rovere per Lux Film

Distribuzione
Lux Film

Note
Direttore d’orchestra: Fernando Previtali; altri interpreti: Luciana Coluzzi (Luciana), Carmela Trovato (Cirmena), Angela Scaldaferri (Diodata), Michele Raffa, Ciccio Jacono.
Premio Orso d’Argento a Berlino 1951 a Pietro Germi.
Il film è stato girato tra Favara (Agrigento), Roma e la Val di Susa. Le sequenze ambientate in Emilia furono girate a Maccarese e Fregene, vicino a Roma.



Sinossi
Un gruppo di minatori siciliani rimasti senza lavoro dopo la chiusura di una solfara sono contattati da un losco truffatore, che promette in cambio dei loro risparmi di condurli in Francia verso un lavoro sicuro e un’esistenza migliore. Comincia per tutti, visto che i minatori portano con sé le loro donne, bambini e anziani, un estenuante viaggio attraverso l’Italia, in treno e in pullman, durante il quale l’ingaggiatore tenta la fuga e arriva a denunciare alla polizia chi lo ha smascherato. Mentre prosegue verso Nord, il gruppo si sfalda, tra liti con i lavoranti emiliani che li individuano come crumiri, amori che sbocciano, rivalità, ingiunzioni di polizia e persone che decidono di tornare indietro. Solo un gruppo ristretto arriva tra le nevi delle Alpi e giunge alla frontiera, dove i gendarmi francesi per umanità consentono loro di passare.



Dichiarazioni
«Ricordo di aver conosciuto Raf­ Vallone già durante la guerra, quando abitava a Torino in un alloggio al piano rialzato in via Bianzè. Qualche volta andavo da lui in bicicletta a portargli delle buste contenenti documenti "deli­cati", forse stampa clandestina. Mi muovevo sempre in bicicletta attraverso Torino, la Fert mi affi­dava anche le pizze di pellicola che portavo a sviluppare alla Positiva, in via Luisa del Carretto, dove sor­gevano gli stabilimenti dell'Itala Film. Ho poi lavorato con Vallone in Riso amaro: lo portai in auto, insieme a De Santis, a fare i sopralluoghi nel Vercellese, poi durante il film sono stato operatore alla seconda macchina, cioè ho girato molte inquadrature di mondine al lavoro e paesaggi delle risaie. Un anno dopo abbiamo attraversato tutta l'Italia dalla Sicilia al Monginevro per girare Il cammino della speranza. Ho un indelebile ricordo delle riprese realizzate in una miniera di zolfo siciliana. Scesi sotto terra e mi parve di trovarmi in un girone infer­nale: dalle rocce emanava un calore fortissimo, i minatori - che stavano scioperando da una settimana - erano seminudi o nudi del tutto. Portavo con me uno dei primi registratori audio magnetici, che aveva un filo di acciaio al posto del nastro. Con questo piccolo apparecchio regi­strai un indimenticabile coro dei minatori che cantavano Vitti ‘na crozza sul ritmo del motore un po' sbiellato che pompava l'orlo a quello profondità. Raf Vallone aveva un carattere piuttosto duro, deciso, però era molto alla mano e sul lavoro dimostrava grande disponibilità con tutti. Certo, qualche volta si scontrò con Germi, il quale aveva un carattere ancora più duro del suo e pretendeva che gli attori facessero esattamente tutto quello che lui voleva, ma riuscirono sempre a mettersi d'accordo alla svelta. Elena Varzi era molto giovane e durante il film vedemmo nascere il rapporto sentimentale tra lei e Vallone. Pietro Germi sapeva esattamente cosa voleva. Stava a lungo dietro la macchino da presa per­ché componeva tutte le inquadrature con grande meticolosità. Bisogna pensare che a quell'e­poca non avevamo lo zoom e potevamo usare raramente il carrello che era molto ingombran­te e doveva far muovere una cinepresa che poteva pesare anche 70 chili. II direttore della fotografia, Leonida Barboni, sistemava le luci, mentre io mi occupavo della cinepresa seguen­do alla lettera le indicazioni del regista. Ho detto che Germi studiava con cura le inquadratu­re e passava molto tempo a guardare attraverso l'obiettivo, con la testa coperta dal pezzo di tela che si usava dietro la macchina per abituare l'occhio alla luce. Purtroppo egli non taglie­va mai li sigaro dalla bocca, così qualche volta finiva per dare fuoco alla tela» (A. Canavero, “Mondo Niovo 18-24 ft/s” n. 1, 2006).

«Raf [...] era una persona stupenda e Torino era la sua città: suo padre era torinese e lui, pur essendo nato in Calabria, ha vissuto qui a lungo, trascorrendovi gli anni dell’università, del teatro, del giornalismo. Ha fatto amare Torino anche a me che, essendo nata a Roma, non la conoscevo. Ho incontrato Raf per la prima volta sul set de Il cammino della speranza, ed essendo i protagonisti passammo molto tempo insieme. La lavorazione durò sei mesi e ci fu il tempo per conoscersi bene attraverso tutta l’Italia: le riprese partirono dalla fine, ovvero sulla neve del Moncenisio per poi arrivare alla Sicilia. Capimmo che stavamo bene insieme, che avevamo lo stesso carattere e che la vita insieme sarebbe stata semplice. Pietro Germi era molto duro se un attore (o un’attrice) non funzionava, se non faceva ciò che lui voleva; a volte dava anche degli schiaffi, ma per fortuna a me non è mai capitato. In realtà era bravissimo, seguiva gli attori con molta attenzione e dava sicurezza» (E. Varzi, Ibidem).






«Il cammino della speranza rappresenta un ambizioso dramma sociale, un viaggio morale condotto sui ritmi della ballata epica seguendo il percorso di speranza e insieme di amarezza di chi sente di non aver nulla da perdere. Si tratta di un «affresco epico, mitico e misterioso, la cui potenza drammatica ed espressiva è irriducibile alle concezioni di cinema che circolavano nella cultura in cui prese corpo» (M. Sesti, Tutto il cinema di Pietro Germi,  Baldini & Castoldi, Milano, 1997).
 
Il punto di partenza sta nell’attualità: il romanzo Cuori negli abissi di Nino De Maria si ispira ad un fatto di cronaca di cui Germi era venuto a conoscenza durante le riprese di Fuga in Francia (alcuni meridionali che tentavano di attraversare la frontiera erano stati trovati quasi congelati nella neve della Valle d’Aosta). La sceneggiatura preparata dal duo affiatato Fellini-Pinelli elabora i fatti reali in chiave epica, e il regista dal canto suo struttura l’alternanza di crudezze documentaristiche con un articolato impianto melodrammatico, in modo meno unitario rispetto a In nome della legge, ma aperto invece a una narrazione corale che segue le varie storie, regalando a ogni personaggio una dimensione ben definita e tracciando diversi momenti quasi autosufficienti che si stagliano nella memoria. In tal modo si produce un’impostazione lirica della narrazione; ricordiamo il giudizio di Nicholas Ray: «Il film più lirico che abbia mai visto».
 
«Il cammino della speranza è neorealismo epico, una ballata popolare scandita dalle note malinconiche ma non rassegnate di Vitti ‘na crozza. È un film tutto italiano, ai limiti del regionalismo, viaggio morale attraverso il paese, da Sud a Nord […] ma potrebbe anche essere una storia americana degli anni bui, e se un rimando appare davvero inevitabile è quello a The Grapes o Wrath (Furore, 1940) di John Ford: gli stessi poveri, perché i poveri sono uguali dappertutto; la stessa gente costretta a lasciare per sempre la terra dov’è nata e dove non potrà morire; lo stesso viaggio, stipati come bestie, attraverso la miseria e verso la speranza; gli stessi sguardi muti in cui al fondo della tristezza e della rassegnazione si accende ogni tanto qualche lampo di rabbia o perlomeno di consapevolezza. Anche qui i protagonisti vagano, trascinandosi dietro bambini dagli occhi tristi, per un paese che è il loro ma che li considera estranei, intrusi; […] anche qui non perdono mai del tutto la speranza» (E. Giacovelli, Pietro Germi, La Nuova Italia, Firenze, 1991).
 
In realtà questo film di Germi pare al tempo stesso una delle opere più significative del neorealismo, ed una delle più lontane dalle sue linee prevalenti di poetica e di linguaggio: «più vicino a Zola e Ejzenštejn che a De Sica o Rossellini, […] infatti il neorealismo inteso come urgenza, trauma collettivo, umanesimo populista, vicinanza di sguardo, indebolimento delle figure tradizionali della finzione, ne esce alterato, concentrato, solidificato in un universo di rabbioso potere visivo, tragedia millenaria, sofferenza senza riscatto che amplificava e oltrepassava la cultura neorealista incantata invece dal quotidiano». Con Il cammino della speranza siamo nel campo del lirismo, dell’affresco epico, per cui la vicenda degli emigranti siciliani, la loro fuga dalla miseria, «costantemente sostenutala una rassegnazione impenetrabile, assume sin dall’inizio una connotazione simbolica ancor più radicale di quanto l’insostenibilità della loro esistenza finisca per determinare: è una fuga in un altrove assoluto, qualcosa di totalmente differente dalla realtà» (M. Sesti, Op. cit.).
 
Un crescendo drammatico conduce questa “fuga nell’altrove” ad un finale tra la neve gestito con rara abilità da Germi, ma purtroppo l’inserimento di una voce fuori campo sull’inquadratura finale dei personaggi che scendono verso il fondovalle, fa precipitare la conclusione ad un livello banalmente moralistico e consolatorio. Le parole che il regista – contrariamente al parere espresso dagli sceneggiatori – inserisce come “pistolotto” finale paiono tanto più retoriche dal momento che il resto del film non lo è affatto: “Poi, come Dio volle, passò la bufera ed essi varcarono il confine. Erano stremati, ma il loro passo era vivace. Davanti a loro non c’era più l’aspra, paurosa montagna, ma un facile aperto declivio dove la loro speranza e le loro illusioni scivolavano dolcemente: la Francia…”
 
Il film, che in origine doveva intitolarsi Terroni (il termine dispregiativo usato nel Nord Italia per i meridionali), incontra ancora prima della sua uscita diversi problemi di censura, soprattutto per alcune scene riguardanti l’operato delle forze dell’ordine, ma vince l’Orso d’Argento a Berlino e rimane uno dei risultati più significativi del lavoro di Luigi Rovere, da garzone di falegnameria diventato in pochi anni uno dei più importanti produttori italiani.
 
«Il film […] è indubbiamente un’opera di prim’ordine, anche se non manca di qualche difetto: piccoli squilibri, frammentarietà […] C’è nel film, attraverso i vari episodi della vicenda, una linea, un ritmo continuo:da quel bianco delle pietre calcinate dal sole nel paesino siciliano di nuovo al bianco dolce e amichevole delle nevi alpine, attraverso il trambusto della vita di Roma che quasi stordisce i paesani, attraverso i paesaggi calmi della pianura padana dove però scoppia da un momento all’altro quella lotta per la difesa del pane e del lavoro che essi non hanno ancora conosciuto in forme così ampie e organizzate. […] da Ladri di biciclette al Cammino della speranza molte cose si sono fatte più chiare: è diventato evidente come tutta la struttura dello Stato sia sempre più ostile al poveraccio, tanto se gli han rubato la bicicletta come se gli han rubato il lavoro» (P. Gobetti, “l’Unità”, 21.11.1950).
 
«Il cammino della speranza segna comunque un notevole passo avanti rispetto alle precedenti opere di Germi […] pur rimanendo in sostanza schematico,  Germi riesce a rivestire i suoi “terroni” di una simpatia la quale, anche se si proietta soltanto sul pubblico e non anche su certe persone non siciliane del film (settentrionali) tende a eliminare assurde barriere tra Nord e Sud. Anche per raggiungere tale simpatia, Germi si affida ad una narrazione prettamente popolaresca, condotta sulle basi di una nobilissima lingua artigianale che, pur non rifuggendo […] da certe ambizioni creative e da certe influenze, punta […] sull’emozione sentimentale, improvvisa, diretta, imposta quasi di forza» (G. Aristarco, “Cinema” n. 52, 15.12.1950).
 
«Tema audace e drammatico., umano e crudele; poteva nascerne un gran film. Purtroppo soggetto e sceneggiatura vi si sono cocciutamente opposti. […] Perché è mancata al film una sua genuina ispirazione. Lo si è costruito. E per il timore di cadere nel gracile, lo si è sovraccaricato, affastellato. Ma i “pezzi” da ricordare sono parecchi; quasi sempre ci senti l’impronta di chi non ama il facile, l’ovvio; e parecchi tocchi sfuggenti, rapidi  delicati, sono di una commozione rattenuta, virile. Film discutibile e nobilissimo, assolutamente lontano dalla produzione corrente» (M. Gromo, “La Stampa”, 23.11.1950).
 
«Chi ha antipatia o timore verso gli africani, i mitteleuropei, gli asiatici che tentano di emigrare in Italia in cerca di lavoro, potrebbe vedere questo film [...].  Il confronto con gli immigrati contemporanei è molto interessante e significativo» (L. Tornabuoni, "La Stampa", 17.10.2008).


Scheda a cura di
Franco Prono

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