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ENCICLOPEDIA DEL CINEMA IN PIEMONTE

Lungometraggi



Il cavaliere di Maison Rouge
Italia, 1953, 35mm, 90', B/N

Altri titoli: The Glorious Avenger

Regia
Vittorio Cottafavi

Soggetto
dal romanzo omonimo di Alexandre Dumas, padre

Sceneggiatura
Alessandro Ferraù, Giuseppe Mangione, Vittorio Cottafavi

Fotografia
Arturo Gallea

Operatore
Carlo Bellero

Musica originale
Ezio Carabella

Suono
Giovanni Canavero

Montaggio
Loris Bellero

Scenografia
Giancarlo Bartolini Salimbeni

Trucco
Euclide Santoli

Aiuto regia
Carla Ragionieri

Interpreti
Armando Francioli (Maurice Lindet), Renée Saint-Cyr (Maria Antonietta), Yvette Lebon (Margo), Vittorio Sanipoli (Maximilien Loris, cavaliere di Maison Rouge), Alfred Adam (Dixmaire), Marcel Pérès (Simon), Giancarlo Regis (il Delfino), Franca Marzi, Olga Solbelli, Luigi Tosi, Pietro Fumelli, Giuseppe Chinnici

Direttore di produzione
Ermanno Pavarini

Produzione
Giorgio Venturini

Note

Nulla Osta n. 4.670 del 14.10.48; 2.615 metri. Aiuto operatore: Armando Nannuzzi; organizzazione generale: Giampaolo Bigazzi.





Sinossi
Dopo la condanna di Luigi XVI, un gruppo di fedeli monarchici prepara la liberazione della regina Maria Antonietta, rinchiusa nel Tempio insieme al figlio. Alla testa del gruppo vi è il cavaliere di Maison Rouge, arruolato nella Guardia Nazionale sotto il nome di Massimiliano Lorin con il grado di tenente. Questi fa amicizia con il capitano Maurizio Linday, addetto alla sorveglianza dei prigionieri del Tempio, e riesce a farvisi assegnare. Linday è innamorato di una misteriosa dama, che è in realtà Margot, la moglie di uno dei capi monarchici. Col suo aiuto i congiurati riescono a comunicare con Maria Antonietta, informandola di un piano per l’evasione. Ma la Regina viene scoperta dalle guardie mentre è intenta a bruciare un biglietto e viene separata dal figlio, affidato al calzolaio Simon. I congiurati studiano un altro piano, destinato però al fallimento. Il capitano Linday lascia Parigi insieme a Margot; Maria Antonietta viene condannata a morte e giustiziata; il cavaliere di Maison Rouge, ferito mortalmente da Simon, prima di morire riesce ad uccidere il sinistro giacobino.



Dichiarazioni

«Le mie esperienze brechtiane mi portarono alla catastrofe finale […]. I miei tentativi in questo senso cominciarono subito, non appena mi trovai di fronte a personaggi in costume e con la spada in mano: io ne vidi il bello e il ridicolo. Niente di meglio dei film di cappa e spada per mettere, anche magari con un certo disordine, i contrasti e le contraddizioni dell’eroismo e della vigliaccheria, dell’amore e del sacrificio, dell’erotismo e dell’interesse» (V. Cottafavi, in G. Rondolino, Vittorio Cottafavi, Bologna, Cappelli, 1980).

«Con Venturini […] abbiamo girato Il Cavaliere di Maison Rouge a Venaria, nel Palazzo Reale ancora da ristrutturare, men­tre Le avventure di Cartouche con Basheart lo abbiamo girato al Palazzo Reale di Torino. I costruttori delle scenografie erano i fratelli Dante e Secondo Simonini. Straordinari, avevano fat­to molto teatro e lavoravano dai tempi del muto. Avevamo ri­costruito dei saloni che tenevano tutto il Teatro tre della FERT» (A. Gasperini, in L. Ventavoli, Pochi, maledetti e subito. Giorgio Venturini alla FERT (1952-1957), Museo Nazionale del Cinema, Torino, 1992).






Seconda regia di Cottafavi per la Produzione Venturini (se non si considera la supervisione al film di Callegari I piombi di Venezia, del 1952) dopo Il boia di Lilla dell’anno precedente, Il cavaliere di Maison Rouge è ancora una volta un film di cappa e spada tratto da Dumas padre. Il film, girato in larga parte alla Reggia di Venaria, ebbe uno scarso successo critico in Italia («Interessante in alcuni momenti, monotono in altri, il film non riesce a sollevarsi ad un livello un po’ elevato, malgrado la buona prestazione degli interpreti» scrive U. Tani in Intermezzo”, nn. 14/15, 15.8.1954), mentre fu molto apprezzato in Francia.

Lo stile e l’approccio brechtiano di Cottafavi alla materia dumasiana e al genere di cappa e spada entusiasmarono il critico francese Michel Mourlet il quale, qualche anno dopo, nel suo saggio intitolato Du côté de Racine, così motiva il fascino e l’importanza di questa fase del percorso di Cottafavi: «Questi esempi illustrano una forza capitale della regìa di Cottafavi, la nozione di invasione che domina gli istanti di crisi. È il solo cineasta che sfrutta sistematicamente l’insediamento della crisi, invece di passare di colpo alla sua espressione ormai insediata. Tutta l’attenzione è fissata sul passaggio tra la calma e la tempesta, istante infinito in cui l’essere è sorpreso in una trasformazione intima che lo espropria della sua libertà e della sua coscienza lucida, lo indirizza totalmente verso una fine unica e, per così dire, lo mineralizza nella sua passione. È questa pietrificazione dell’essere che la macchina da presa scopre, dandoci la più vertiginosa sensazione di violare un segreto, di penetrare in una zona vietata, come ciò che si dipinge sul viso di una donna nel momento in cui il piacere l’afferra e la travolge. Similmente, le scene decorative, in senso nobile, in cui il sublime non è più di natura intima ma collettiva e spettacolare, utilizzano, sino al limite del possibile, la simmetria dei gesti e della scenografia, sboccano su una liturgia della preparazione: preparativi di rivolta, di esecuzioni capitali, questi fatti sono preceduti da una messa a posto del sistema dal quale essi derivano come una conseguenza geometrica: messa a posto che trattiene la quasi totalità dell’attenzione» (M. Mourlet, "Présence du Cinéma”, n. 9, 1961).

In Il cavaliere di Maison Rouge viene messo definitivamente a punto l’approccio straniato e ironico inaugurato da Il boia di Lilla e poi ulteriormente perfezionato in opere successive del regista, come Ercole alla conquista di Atlantide (1961) e I cento cavalieri (1964). Con Il cavaliere di di Maison Rouge, Cottafavi intende «proseguire il “gioco dumasiano”, […] manomettere il testo di Dumas (ed anche la sceneggiatura che ne avevano ricavato Giuseppe Mangione e Alessandro Ferraù e alla quale non aveva partecipato Cottafavi) sul piano dello stile. Da una parte una sorta di demistificazione degli elementi eroici e avventurosi presenti nel dramma, dall’altra un tentativo di riscattare sul piano di una regìa controllatissima la banalità dell’assunto» (G. Rondolino, Vittorio Cottafavi, Bologna, Cappelli, 1980).

Lo scarso successo di questo e degli altri film simili di Cottafavi è da ricercarsi nell’approccio del regista ai soggetti che Venturini gli proponeva: «una volta scelti dei soggetti di chiaro intento commerciale ed evasivo, Cottafavi si interessò quasi esclusivamente alla loro realizzazione filmica sulla base di uno sperimentalismo (in largo senso, comprendente anche il piacere dell’avventura disimpegnata) che lo poneva al di fuori delle questioni strettamente spettacolari, nel senso di funzionali a un determinato pubblico di spettatori. Ed è all’insegna della sperimentazione formale, del divertimento intellettuale, del gustoso gioco culturale, che questi […] film si collocano nella carriera registica di Cottafavi, anticipando solo in parte e per certi caratteri grotteschi i successivi film storico-mitologici» (Ibidem).



Scheda a cura di
Matteo Pollone

Persone / Istituzioni
Vittorio Cottafavi
Giuseppe Mangione
Arturo Gallea
Ezio Carabella
Giovanni Canavero
Armando Francioli
Yvette Lebon
Vittorio Sanipoli
Giancarlo Bartolini Salimbeni


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