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ENCICLOPEDIA DEL CINEMA IN PIEMONTE

Lungometraggi



Nemmeno il destino
Italia, 2004, 35mm, 110', Colore

Altri titoli: Changing Destiny

Regia
Daniele Gaglianone

Soggetto
liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Gianfranco Bettin

Sceneggiatura
Giaime Alonge, Daniele Gaglianone, Alessandro Scippa

Fotografia
Gherardo Gossi

Operatore
Luciano Federici

Musica originale
Giuseppe Napoli

Suono
Gianluca Costamagna

Montaggio
Luca Gasparini

Effetti speciali
Corridori

Scenografia
Valentina Ferroni

Costumi
Marina Roberti

Trucco
Nadia Samà

Aiuto regia
Alessandro Scippa

Interpreti
Mauro Cordella (Alessandro Stellin), Fabrizio Nicastro (Ferdi Castronovo), Giuseppe Sanna (Toni), Lalli (Adele Stellin), Gino Lana (Sebastiano Castronovo), Stefano Cassetti (Lorenzo), Antonio Servillo (Angelo Cardi), Maria Fammilume (Margherita Cardi), Adriana De Guilmi (Suor Elena), Palma Di Nummo (Adele giovane)

Direttore di produzione
stripslashes(Lia Furxhi)

Produzione
Domenico Procacci, Gianluca Arcopinto, Pierpaolo Trezzini perArmadillo cinematografica, Fandango, con la collaborazione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali

Distribuzione
Fandango

Note
Sviluppo della sceneggiatura realizzato con il sostegno dell’Istituto Luce; assistente operatore: Ezio Gamba; aiuto operatore: Stefano Meloni, suono in presa diretta Dolby stereo; canzone Non posso accettare di Luigi Salerno; montaggio del suono: Marco Furlani; assistenti montatori: Stefano Cravero, Anita Cacciolati; assistente scenografo: Enrico Saletti; assistente costumista: Monica Saracchini; sarta: Barbara Visca; parrucchiera: Patrizia Manni; assistenti alla regia: Guido Foa, Evandro Fornasier, Monica Affatato; altri interpreti: Diego Canteri (Uomo Nero), Mimmo Longo (professore di Storia), Francesco Lattarulo (ragazzo comunità), Niccolò Pagani (amico Marchisio), Clara Nieloud (Adele bambina), Cristian Albanese (Alessandro bambino); delegato alla produzione Fandango: Laura Paolucci; segretari di produzione: Eugenia Gaglianone, Ferdinando Cocco.
Riconosciuto come film d’interesse culturale nazionale dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Dipartimento Spettacolo.
Realzzato con il contributo del MiBac e il sostegno di Film Commission Torino Piemonte.
Gli esterni sono stati girati a Torino, Orbassano, Rivalta, Trana, Collegno e Champorcher.               
Alla fine del film compare questa didascalia: “Alle cose che si perdono”.
 
Premi: Premio della Giuria al Festival du Film Italien de Villerupt 2004; Premio Arca Cinema Giovani Lungometraggio Italiano; Premio Lino Miccichè alla Biennale di Venezia 2004; Tiger Award al Rotterdam International Film Festival 2005; Premio speciale della Giuria al Taipei International Film Festival 2005.




Sinossi
Alessandro ha quindici anni e vive alla periferia di Torino con una madre affetta da problemi psichici. È legato da una forte amicizia a due suoi compagni di classe, Toni e Ferdi, ma li perde entrambi a causa del disagio che affligge anche loro: il primo scompare nel nulla, il secondo (figlio di un alcolista) si suicida lanciandosi dal tetto di un palazzo in sella al suo motorino. Quando un’anziana coppia di suoi amici viene sfrattata, Alessandro incendia la casa che i due hanno dovuto lasciare e viene mandato per questo in una comunità. Gli educatori della struttura rieducativa lo accompagnano, insieme agli altri ragazzi a loro affidati, in una gita in montagna, e ad Alessandro sembra di ritrovare Toni e Ferdi.




Dichiarazioni
«La mia famiglia si è trasferita a Torino nel ’72. Torino era, e in un certo senso lo è di più adesso, una città di sradicati. Mio padre è calabrese, mia madre è marchigiana. Io sono nato ad Ancona e cresciuto a Torino, zona Aeronautica, periferia Ovest, tra Collegno e Grugliasco. Lì sono andato a scuola. I nomi dei miei amici erano: Carmine Mauriello, Antonio Monteleone, Andrea Piturru, Angelo Calavullo, Gianni Papagni… erano figli di immigrati che magari lavoravano alla Fiat, venuti su alla fine degli anni ’50 e ’60, oppure erano ragazzini cresciuti al Sud e venuti a Torino da piccoli, come me. Molti di loro per me sono tanti Toni, l’amico di Ale e Ferdi in Nemmeno il destino. È come se all’improvviso fossero tutti spariti nel nulla. Accade spesso con gli amici di quell’età; condividi intere giornate, interi mesi, anni e poi senza sapere bene perché, le strade si dividono e non li vedi più» (D. Gaglianone, in D. Zonta, Daniele Gaglianone, Falsopiano, Alessandria, 2004).  

 

 

 

 

 
 

 






Nemmeno il destino è la storia di una “maturazione dolorosa”, di mancanze e di solitudine. Il film, basato sull’omonimo romanzo del veneziano Gianfranco Bettin (significativamente rielaborato), ha come scenario caratterizzante la periferia e pare quasi una «cronaca del dopobomba», laddove «la bomba è la Fiat, l’industria, gli Agnelli» (D. Zonta, Daniele Gaglianone, Falsopiano, Alessandria, 2004); in altre parole pare uno spaccato dell’emarginazione portata con sé dalla crisi post-industriale di Torino. Significativa, a tal proposito, la sequenza in cui il padre di uno dei ragazzi protagonisti del film, ormai abbruttito da un lungo lavoro insano, parla da solo in una fabbrica rappresentata come una cattedrale sconsacrata o come il bubbone di una malattia fisica e sociale. 
 
Il regista afferma che i suoi lavori, pur sembrando fuori dal tempo e dallo spazio, sono molto legati al territorio e alla città: «Se non fossi cresciuto a Torino non li avrei fatti così. Nemmeno il destino è Torino. Ed è talmente Torino che non ho bisogno di dichiararlo». D’altra parte, però, la storia del lungometraggio potrebbe svolgersi in altre città industriali (ed infatti il romanzo da cui il film è ricavato è ambientato a Marghera).
 
Con Nemmeno il destino, Gaglianone recupera suggestioni già incontrate in lavori precedenti; in particolare, sono forti i legami con E finisce così: l’inizio del secondo lungometraggio di Gaglianone, con la sparizione “cinematografica”, palesemente artificiosa dei ragazzi, si riallaccia alla conclusione di quel cortometraggio. È la ripresa di un discorso mai interrotto dal regista: quello sui percorsi di vita che si separano, facendo spesso perdere ogni traccia delle persone con cui si cresce.
 
Gaglianone non connota l’epoca in cui ambienta la sua storia; alcuni elementi (una sorta di sottotesto) permettono di intuire che il riferimento è ai primi anni ’80 (eloquente, in particolare, la presenza di un motorino Ciao, in sella al quale uno dei protagonisti passa la maggior parte del suo tempo), ma il regista riesce nel suo intento di calare il racconto in un periodo che più generazioni possano riconoscere come proprio. Allo stesso modo, pur narrando una vicenda fortemente centrata sulle figure di tre adolescenti, Gaglianone riesce a non fare un film sui giovani, evitandone i luoghi comuni, molto diffusi in tale filone cinematografico.
 
Anche Nemmeno il destino, come molti lavori di Gaglianone, è povero di figure femminili positive: se ne La ferita e ne La carne sulle ossa la donna era la protagonista di una sofferenza fisica e psicologica (dovuta alla perdita del sangue mestruale e all’anoressia) e se ne I nostri anni non ha nessuna parte di rilievo, in Nemmeno il destino compare nel ruolo della madre del giovane protagonista, affetta da disturbi psichici e incapace di badare al proprio figlio. La problematicità di questo personaggio non è certamente bilanciata dalla professoressa, altra figura incapace di comprensione ed incoraggiamento; semmai, da una bidella che, con il marito, svolge per uno dei ragazzi quasi la funzione di madre.
 
Nemmeno il destino è ricco di suggestioni letterarie: oltre a La divina commedia, a Giuseppe Fenoglio, Ugo Foscolo e Gregory Corso, il riferimento più esplicito è a L’urlo e il furore di William Faulkner, il libro che viene sfogliato da uno dei protagonisti. Scenografia e fotografia contribuiscono a comunicare allo spettatore la tensione insita nella storia, con l’avanzare della quale lo stile fotografico tende a incupirsi, per diventare, nella seconda parte dell’opera, quasi onirico. 
 
«In Nemmeno il destino tutti e tre i protagonisti provano a deviare dalla traiettoria stabilita da un fato avverso – un fato sia sociale sia tragico. Sono ragazzi che, dichiara il regista, “cercano di salvarsi dal mondo”. Il film ne segue le vicende con sensibilità e coinvolgimento progressivi: l’istanza narrante prodotta da Gaglianone slitta dall’oggettività iniziale ad un sempre maggiore soggettivismo. Come già ne I nostri anni, la memoria emerge e si impone sulla narrazione producendo la rievocazione di un passato di sofferenze e, inserendosi con sempre maggior forza nel fluire lineare del tempo, lo rende franto, sospeso, incerto. […] ciò che soprattutto pare interessare a Gaglianone è riflettere intorno ai fili che la vita, anche in mezzo alle macerie della periferia dell’anima da lui descritta, sa intrecciare, spezzare, perdere definitivamente o ricucire. Con la stessa casualità del destino» (G. Imperatore, “Cineforum”, n. 439, novembre 2004).
 
«Nemmeno il destino non sembra privilegiare la pista di denuncia sociologica – affidando comunque all’evidenza dello sfacelo urbano, fisico, sociale e culturale, la propria amara riflessione sulla marginalità contemporanea che non fa tendenza, non trova spazio in tv o nei dibattiti tra “esperti” di professione, ma non per questo non esiste – ma piuttosto resta interessato alla dimensione più esistenziale e segue in questa prospettiva le evoluzioni dei tre personaggi. […] Gaglianone – con la collaborazione dei co-sceneggiatori Alonge e Scippa, l’impatto delle luci e dei colori di Gossi e la perfetta resa del cast, con una menzione assoluta per i giovani Cardella e Nicastro e per la rivelazione di Lalli, icona canora dell’underground torinese da oltre venti anni – ha la coerenza di non chiudere in un senso univoco un film così complesso e appassionato: ancora una volta ci propone un “ribelle della montagna” non riconciliato, in un film in cui le stilizzazione faulkneriane – l’urlo e il dolore che ricorrono spesso nei flussi di coscienza dei vari personaggi – hanno permesso un ritratto di adolescenti che evocano precedenti illustri della storia del cinema, dall’Edmund rosselliniano che preferisce il vuoto al nulla, al Doinel truffautiano che cerca (e trova) il mare, dagli Outsiders di Coppola, film da rivalutare dopo venticinque anni, ai giovani combattenti che popolano i film dei Dardenne» (M. Marangi, “Cineforum”, n. 440, dicembre 2004).
 
«In Nemmeno il destino, la malattia è endemica e fuori controllo:è quella dei semideserti quartieri satellite di una città riconoscibile anche se volutamente non identificata, delle carcasse sventrate delle grandi officine, dei cantieri inutili, della scuola dove i professori chiedono che si lasci loro finire, “per favore”, l’ora di lezione, di una generazione di “operai” precocemente invecchiata che ha ceduto a una breve illusione e ora la paga a caro prezzo. Sono loro, gli adulti, i mortiviventi, immobili sull'abisso di un passaggio generazionale che non possono gestire […]. Carni mente e cuore martoriati dalle ferite del passato e incapaci di essere realisticamente presenti nel presente. […] Alla “loro” memoria si sovrappone quella del regista, che fa rivivere come corpi “sani”, capaci cioè di “sentire” e reagire, i ragazzi di periferia osservati così da vicino, nella loro rivolta fatta di piccole trasgressioni, in E finisce così. Nove anni dopo, i Giuseppe, Gianma e Manu che giocavano alle “figu” e si divertivano coi petardi e con la merda secca non sono cresciuti e la macchina da presa li segue ancora da pari a pari, vive con loro […]. Sarebbero bastate poche inquadrature a “definire” la situazione, invece una buona metà del film non fa che “raccontare” attraverso le minime varianti di questo perenne vagabondare, un sodalizio virile (le ragazze sono rigorosamente escluse, anche quella carina che sta alle costole di Ferdi) che si fa più complice intimo e disperato […]. La macchina da presa rinuncia al pedinamento per assecondare un flusso di coscienza ora urlato ora agito con identico furore. I colori si sgranano, il buio si fa più irreale, le fiamme che avvolgono l'affresco con la mappa della montagna in casa del bidello sono la rappresentazione naïf dell'inferno. La copia sgualcita (un Medusa d'epoca) del romanzo di Faulkner che Ferdi dice agli amici di aver preso in biblioteca solo perché attirato dal titolo, diventa così, se non il modello, almeno l'idea-guida di una sorta di crescendo a più voci, esaltato dal contributo musicale di Giuseppe Napoli, che culmina proprio con la sequenza di forte impronta onirica dell'incendio» (A. Preziosi, “Segnocinema” n. 131, gennaio-febbraio 2005).
 
«Gaglianone (I nostri anni), prendendo spunto dal romanzo di Gianfranco Bettin, accumula troppi temi foschi e oscilla tra diversi stili di rappresentazione: dal cinema-verità (vedi la prima sequenza, con i giovani attori lasciati in libertà davanti all’obiettivo e tutta la prima parte), al cinema sperimentale (sequenze “mentali” e flashback con fotografia e colonna sonora antinaturaliste) alla commedia sociale (la parte finale nel centro di recupero). Ma è un disequilibrio vitale e interessante, e Gaglianone resta un autore da seguire» (M. Caron, “Segnocinema”, n. 135, settembre/ottobre 2005).
 
La storia è ambientata ai margini di una città del Nord-est descritta dal regista con attenzione quasi documentaria: il visibile seleziona i palazzoni popolari, la periferia degradata, le industrie che incombono con i loro rifiuti tossici sulla salute dei lavoratori, le case spoglie di affetti e di pace del proletariato, infine i relitti umani, inevitabili scarti della democrazia e del consumismo. […] Il film è tratto dal romanzo omonimo di Bettin e ne ripropone la struttura del flusso di coscienza; ma entrambe le opere citano prepotentemente per tematica e struttura L'urlo e il furore di Faulkner. Evocative alcune frasi, non ripetute nel film, per altro fedele allo spirito del libro: “Temi il destino ma non rispettarlo”; “...con gli occhi grandi e chiari aperti sul mondo come gli occhi di un bambino di fronte al temporale [la madre "pazza"]”; “questo latte [con cui la madre allatta il figlio] è così amaro, povero bambino mio, è così amaro”. Gaglianone pedina i personaggi (per quanto prevalga su tutti Alessandro, si ha una partitura corale) con una nervosa macchina a mano che coinvolge gli spettatori, lavora sull'immagine, la desatura in abbaglianti bianchi, ricorre spesso allo sfuocato, fa apparire e sparire con dissolvenze personaggi come fantasmi, intreccia i tempi del racconto con la libertà con cui il dolore e il ricordo affiorano alla mente senza ordine e per associazioni simili a quelle oniriche, senza mai tradire la realtà che viene indagata proprio dove manifesta le sue colpe. Significativo e ben riuscito è l'utilizzo di attori non professionisti. Un bel film di contenuti validi e dalla forma poetica che potenzia il messaggio senza cedere alla debolezza dell'ornamento» (F. Govoni, “Cinemasessanta” n. 6/280, novembre-dicembre 2004). 
 
«Nemmeno il destino adotta agevolmente un romanzo di Gianfranco Bettin ambientato a Marghera. O meglio: Gaglianone coglie pienamente quel senso, spesso proclamato, di Torino come città-laboratorio sociale e politico che anticipa e accentua aspetti e prospettive nazionali. Lo fa filmando tutto il disagio della città-fabbrica diffusa che sfrutta fino a quando può, schiaccia, spinge alla rabbia e alla violenza, e poi ristruttura, cioè "dismette"; lo fa lasciando però vedere scopertamente tutto il suo disperato amore per quei luoghi, nella misura in cui bambini, uomini e donne cercano orgogliosamente, confusamente o lucidamente di ritagliarsi uno spazio vitale, gioioso (perché il cinema di Gaglianone, spesso "marginalizzato", come avviene sullo schermo ai suoi protagonisti, può essere doloroso fino quasi all'insostenibilità, e allo stesso tempo pieno di una vitalità gioiosa come pochi altri). Una città che si contrappone a una montagna che appare concreta e al tempo stesso fortemente simbolica, come spazio di fuga, di libertà possibile, come elevazione, ma anche, ci piace pensare, come modello etico/estetico per un cinema "in verticale", che come coloro che vengono raccontati (ragazzini, anziani, partigiani), come Paolo Gobetti, amico e maestro di cinema e vita, procede in salita (come sulle strade di Ancona?), in solitaria e in gruppo, faticosamente ma con anche gioia, allegria, solidarietà» (P. Manera, “Quaderni del CSCI” n. 6, 2010).


Scheda a cura di
Davide Larocca

Persone / Istituzioni
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Fabrizio Nicastro
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