Torino città del cinema
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ENCICLOPEDIA DEL CINEMA IN PIEMONTE

Lungometraggi



Preferisco il rumore del mare
Italia, 1999, 35mm, 84', Colore


Regia
Mimmo Calopresti

Soggetto
Francesco Bruni, Heidrun Schleef, Mimmo Calopresti

Sceneggiatura
Francesco Bruni, Mimmo Calopresti

Fotografia
Luca Bigazzi

Operatore
Salvatore Bognanni

Musica originale
Franco Piersanti

Musiche di repertorio
Lalli

Suono
Remo Ugolinelli

Montaggio
Massimo Fiocchi

Scenografia
Alessandro Marrazzo

Arredamento
Alessandro Marrazzo

Costumi
Silvia Nebiolo

Trucco
Cristina Magliano

Aiuto regia
Alessandro Angelini

Interpreti
Silvio Orlando (Luigi), Michele Raso (Rosario), Paolo Cirio (Matteo), Fabrizia Sacchi (Serena), Andrea Occhipinti (Massimo), Laura Curino (Maria), Lorenzo Ventavoli (Umberto), Mimmo Calopresti (don Lorenzo), Eugenio Masciari (Cappabianca), Marcello Mazzarella (Vincenzo), Enrica Rosso (Elisabetta), Raffaella Lebboroni (Miriam), Concettina Luddeni (madre di Luigi), Valentina Di Nunno (Adele), Sara D'Amario

Direttore di produzione
Viola Prestieri

Produzione
Biancafilm, Mikado, Rai, Arcapix

Distribuzione
Mikado

Note
2500 metri.
Suono in presa diretta; altri interpreti: Antonio Ferrante (Pasquale, padre di Rosario), Stefano Venturi (Giovanni), Giovanni Bissaca (magistrato), Elena Turra (segretaria di Luigi); segretaria di produzione: Giorgia Pellegrini; organizzatore generale: Nicola Giuliano.
 
Premi: Nastro d’Argento 2000 a Silvio Orlando come Miglior Attore.




Sinossi
Tra tormenti interiori, osservazioni profonde e contrasti sociali si snoda con la vicenda di un giovanissimo meridionale a Torino il quale  filmografia di Mimmo Calopresti. In questo caso, il ragazzo entra in contatto con un borghese, Silvio Orlando, anch’egli meridionale e dibattuto tra un suocero cinico, ma ricco e la propria naturale propensione a confrontarsi con un prete (interpretato dallo stesso Calopresti) che assomiglia molto a Don Ciotti. Collina, centro e periferia di Torino, ma anche lo stadio delle Alpi e un gran goal di Ferrante al Napoli (significativo il discorso filogranata di Orlando stesso). Il suocero squalo è interpretato da Renzo Ventavoli: tra i vari mestieri del cinema, quello di attore era tra i pochi che gli mancava.




Dichiarazioni
«Due adolescenti arrivati al momento in cui si cerca nella vita di diventare autonomi, di uscire dal guscio, di decidere da soli: quindici, sedici anni. Rosario, meridionale, viene aiutato ad andare al Nord da Silvio Orlando, meridionale che ha fatto la sua strada a Torino diventando dirigente d'azienda, che vuole dargli una mano e che vuole mettere a contatto con altre idee il proprio figlio Matteo, pure sedicenne. Il primo ragazzo vive in comunità, il secondo in una bella casa borghese: tutt'e due introversi e timidi, si incontrano, si frequentano, fanno insieme le cose dei ragazzi, mettono a confronto due modi di essere adolescenti. È un film intimo: racconta le emozioni dei ragazzi, il loro bisogno di ribellione e di cambiamento, la loro maniera di obbligare gli adulti a cercar di capire qualcosa di loro stessi. [...] Tra i due, è la differenza di prospettive e di possibilità nella vita, l'importanza dei privilegi d'origine. Con gli adulti, è l’incomprensione, il non riuscire a capirsi mai. La nostra cultura ci insegna che è necessario comprendersi l'un l'altro, che essere tutti uguali è il progresso, che ogni conflitto è superabile attraverso la discussione, che comunicare è essenziale. lo non ne sono così convinto. Capirsi è molto difficile, e si può anche non arrivarci. La discussione a volte crea soltanto confusione. Si è e si può restare diversi senza inseguire omologazioni coatte. Affannarsi tanto a comunicare, a moltiplicare le occasioni e gli strumenti di comunicazione, è del tutto inutile se non ci si chiede cosa abbiamo poi da dirci» (M. Calopresti, “La Stampa”, 31.7.1999).





Mimmo Calopresti, di origine calabrese e vissuto a Torino per molti anni, sintetizza in questo film le proprie idee su un tema che gli sta molto a cuore e che suscita in lui una profonda adesione emotiva: l’integrazione degli immigrati meridionali nelle città del Nord Italia. Oggi i torinesi “autoctoni” sono assai pochi, e non esiste praticamente più la contrapposizione culturale e sociale tra di loro e quanti giungono dal Sud, anche perché molti meridionali hanno fatto fortuna e si sono inseriti perfettamente nel mondo del lavoro e nella vita della società subalpina. Esiste ancora, e nettissima, la contrapposizione tra il mondo impenetrabile dei ricchi (settentrionali o meridionali, c’è poca differenza) che abitano in bellissime ville in collina, e quello dei poveri, degli emarginati che vivono in periferie malsane, o vengono ospitati in comunità ove preti volenterosi cercano di assisterli ed aiutarli.

I due ragazzi protagonisti sono per tanti versi simili per età, cultura, carattere; pure, sono resi diversi dal denaro, dai privilegi, dalle prospettive di vita che possiedono. Essi si frequentano, si parlano, trovano alcuni interessi in comune, ma sostanzialmente non comunicano, non si capiscono. Una incomprensione ancora maggiore esiste tra loro e gli adulti, i quali peraltro sembrano spesso formalmente disponibili a fornire aiuto e affetto.
 
La comunicazione, la comprensione reciproca sono oggi considerati per lo più un obbligo di tutti nella società in cui viviamo, ma Calopresti è convinto che sia spesso inutile, se non dannoso, confrontarsi con gli altri alla ricerca di un’assoluta parità sociale, e che sia assai più produttivo rispettare le differenze, accettare l’incomprensione e rivendicare il diritto di ognuno alla diversità. Neanche la generosità del volontariato, nè l’affetto possono riuscire ad eliminare le barriere che separano culture tra loro incompatibili. I due ragazzi protagonisti rifiutano, ognuno a modo suo, l’omologazione a cui la società vorrebbe costringerli, restano nei mondi diversi a cui appartengono, rivendicano il diritto di percorrere la propria strada in modo autonomo, seguendo gli stimoli che giungono dalle loro “radici”. La conclusione è felice ed amara insieme: Rosario torna nella sua terra più forte e saggio di quando l’aveva lasciata, grazie all’esperienza fatta nel Nord, ma il suo futuro resta incerto, in qualche modo ambiguo.
 
Lo stile di Calopresti è, di film in film, sempre più sobrio e denso di stimoli intellettuali ed emotivi insieme. Approfondisce la realtà psicologica dei suoi personaggi ma rifiuta qualsiasi psicologismo schematico, denuncia la situazione sociale esistente, ma evita sociologismi di maniera, semplificazioni schematiche e soluzioni consolatorie. L’unica certezza che gli resta, alla fine, è quella di non avere certezze, ma di vedere con chiarezza un problema senza soluzione.
 
Il titolo del film richiama due noti versi dei Canti Orfici di Dino Campana: “Lavorare, lavorare, lavorare / preferisco il rumore del mare”. Il termine “preferisco”, afferma il regista, è una parola insolente, che indica una scelta netta, compiuta da Rosario in piena coscienza, con il fine di diventare padrone del proprio destino.
 
«In Preferisco il rumore del mare di Mimmo Calopresti ancora corpi in bilico, “puer" feriti nell'anima, di due adolescenti il cui rapporto costeggia quello fraterno ma insieme si scinde in un infido e alla fine dirompente doppio legame fatto di senso di colpa e di rifiuto altrettanto che di bisogno dell'altro e di liberazione dai ricatti familiari. Ma come sempre in Calopresti una costruzione orizzontale che icasticamente procede per giustapposizioni e deviazioni come per décalage e accelera­zioni, mentre vuole far emergere, dall'incrocio di rapporti delle varie "famiglie" vere e false del film (i due padri, il professionista e il carcerato, il padre acquisito del prete "di base" impersonato dallo stesso Calopresti, le madri scomparse o borderline, l'amante che si sottrae, il gruppo di ragazzini e ragazzine in cui trovare un senso di appartenenza etc...) una perplessa e inquieta "separazione" non solo di nord e sud ma di più Italie psicologiche e comportamentali, riesce con maggiore secchezza ed efficacia a filmare il vuoto di rapporti e il condizionamento psicologico degli spazi mentali perlappunto quando si addossa alla fisicità dei due ragazzi alla motricità dei loro corpi (la danza rabbiosa del torinese, il suo dipingere "somatizzato", i piccoli gesti e le timidezze come le ostinazioni primarie e desideranti, il mangiare dolci o il bere o il rapporto con il denaro del calabrese), ma poi l'emergere lento dello spazio urbano e dell'apertura dislocata sul mare e sul sole di un sud "interiore" che si addensano progressivamente, da una Torino intravista e sfuggente a una Calabria immota e dolce come un dipinto di Carrà, trasporta il film quasi suo malgrado in una irresoluzione nonostante la precisione ostinata e un po’ monotona del disegno di un rapporto "mancato"» (B. Roberti, “Filmcritica” nn. 506/507, giugno-luglio 2000).
 
«Con un tocco molto asciut­to, una prosa secca, in una To­rino creativamente reinventata e “vista” da Luca Bigazzi (or­mai il direttore di fotografia di tutto il migliore nuovo cinema italiano), nel solco della memo­ria iconografica della città co­me venne colta da Daniele Se­gre; con alle spalle, in tal sen­so, la lezione di creatività vi­suale metropolitana di un Mar­tone ma anche la più grande le­zione di Amelio; con la concre­tezza di personaggi, fatti, con­testi e lo sfondo sociale lasciato da qui emergere proprio ad esempio di quell'altro ormai importante autore torinese che è Tavarelli, l'opera terza di Ca­lopresti racconta a Torino di un'amicizia adolescenziale non facile, contrastata e dialettica per diversità di caratteri, prove­nienze e condizioni sociali, mentalità, scelte di vita. Amici­zia che diventa confronto. […] Ma il dialogo resterà sempre difficile, le mentalità troppo diverse, la conoscenza reciproca non scal­firà, mutandole, le due diffe­renti personalità e culture. Re­steranno se stessi. […] Certo il con­tatto/confronto ha portato a en­trambi i ragazzi un sovrappiù di consapevolezza, di conoscenza, magari anche un arricchimento di forza. Intreccio concreto di ambienti veri, l'alta borghesia arricchita torinese, il mondo degli affari, il volontariato, l'emarginazio­ne, la prospettiva meridionale. Calopresti sventaglia ricchezza di ottiche e differenze, di con­fronti e condizioni, problemi e sensibilità, aridità, fallimenti e passioni. E questa ricchezza la mette a confronto, la fa intera­gire confliggendola: ma è pro­prio tale diversità che si fa va­lore, non-omologazione, non­-appiattimento, salvaguardia della persona, dialettica di co­noscenza e scambio di espe­rienze sullo sfondo dei grandi problemi storico-sociali ancora e sempre aperti in Italia» (R. Gilodi, “Cinemasessanta” n. 3/253, maggio-giugno 2000).
 
«L’operatore e direttore della fotografia Luca Bigazzi ci fa attraversare ripetutamente le strade di una opaca Torino invernale, fata di case e marciapiedi che i colori delle festività natalizie mascherano debolmente. È proprio la città a “mettere alla prova” i personaggi principali di Preferisco il rumore del mare, creando le basi di una innegabile ricchezza tematica. [...] Il rumore del mare si definisce precisamente come il richiamo alla Calabria (dove Calopresti è nato quarantacinque anni fa) [...]. Il rumore della città rappresenta invece il regno dei problemi, dell’incomunicabilità, del compromesso, del lavoro “sporco”, del benessere, della fatica di essere e di scegliere. Non a caso, poi, la scelta dei luoghi è caduta su Calabria e Torino (ancora un richiamo autobiografico dell’autore): certamente anche il divario e la contrapposizione tra nord e sud rappresenta un tema presente nel film [...]. Se Matteo sembra profondamente immerso nelle contraddizioni e nelle problematiche dell’adolescente ricco ed annoiato del nord, così assediato dall’incomprensione senza via d’uscita da tentare il suicidio [...], Rosario rappresenta una sorta di alternativa più responsabile e coerente: eppure la scelta di ritornare in Calabria non a soltanto il sapore del rifiuto dell’ipocrisia di Luigi, ma anche quello della fuga, della rinuncia e del rifugio nell’orgoglio» (F. Ceretti, “Itinerari Mediali”, maggio-giugno 2000).
 
«Il titolo, direbbero in un giornale, "canta" (e giustamente, è un verso di Dino Campana). L'affiche è elusivamente poetica (un mare blu, particolare di un quadro di Guccione). Lo stile, esaltato dalla bella fotografia di Luca Bigazzi, è pudico, austero, elegante. E il soggetto mira alto, a toccare corde che parlano a tutti e di tutti, perché attraverso un'amicizia tra due ragazzi molto diversi fa confluire in un'unica storia due problemi brucianti, il rapporto tra Nord e Sud, e lo scontro tra la generazione dei padri e quella dei figli. [...] Dobbiamo accettare, più che capire, perché il quindicenne Matteo (Paolo Cirio) è così chiuso e antipatico. Va bene che è figlio di separati, che il padre Luigi (Silvio Orlando) - di origine calabrese, dirigente in una grande azienda torinese di proprietà del suocero - è distaccato e distratto e la mamma è parecchio strana e sembra indifferente [...]. E il giovane calabrese Rosario (Michele Raso), che Luigi decide di aiutare portandolo in una comunità, lontano dalla Calabria dove il ragazzo è isolato, ha tutte le ragioni di essere silenzioso e pacatamente arrogante, visto che la madre gli è stata uccisa in una faida e il padre è in carcere. Ma la sua reticenza, la reticenza di Calopresti e una recitazione molto rigida e antiemotiva ci lasciano ai margini del suo problema. [...] Ma il crescendo drammatico resta per molti aspetti inspiegato, se non dai pregiudizi profondi che Luigi, interpretato con un eccesso di distacco da Silvio Orlando, continua a nutrire per le proprie origini - il Sud, la piccola borghesia. A meno che la chiave di lettura di questo film sincero, ambizioso ed elusivo non stia nel nome della libreria in cui il giovane Rosario lavora, e che si chiama Franti, come il cattivaccio deamicisiano che si è meritato a suo tempo un elegio di Umberto Eco. La bontà di cui i due ragazzi leggono nel libro Cuore, stranamente appassionati, è sparita. Tanto vale, pensa Rosario, ascoltare il rumore del mare. Anche se, pure in Calabria... » (I. Bignardi, “la Repubblica”, 25.3.2000).
 
«Si spinge all'estremo il vissuto del cinema di Mimmo Calopresti. Un vissuto così (in)attuale, così normale da evidenziare l'elasticità e l'incapacità della sceneggiatura di Mimmo Calopresti e Francesco Bruni a contenerlo. Preferisco il rumore del mare è un'opera densa di dialoghi sospesi, di tentate complicità, di gesti rientrati. Altri percorsi nel vuoto, dove gli itinerari e i luoghi si ripetono (il cancello della comunità di Don Lorenzo e quello dell'abitazione di Luigi, la libreria "Franti") e in cui gli spazi, grazie anche alla fotografia di Bigazzi [...] acquistano una loro monotona riconoscibilità [...] Quello di Calopresti è uno stile pudico ma al tempo stesso forte, controllato e geometrico nel gestire i sentimenti dei suoi protagonisti ma anche libero, rissoso e istintivo [...] Non è un caso che la macchina da presa si muove molto di più nel momento in cui segue i moti corporei dei protagonisti più giovani, proprio perché più immediati e meno razionalizzati nelle traiettorie - sia spaziali, sia emotive -, ormai fisse degli adulti. [...] Un cinema che si risolve in immagini secche ed essenziali, ma anche pregne di vita. Niente si risolve nei rapporti tra i personaggi anche se, rispetto alle due opere precedenti di Calopresti, questo film è più denso di fatti, di avvenimenti. [...] Un cinema, quello di Calopresti, diverso, spontaneo, assolutamente personale» (S. Emiliani, “Film” n. 44, marzo-aprile 2000).
 
«Mimmo Calopresti al terzo film [...] conferma la sua gran bravura nel raccontare i problemi italiani attraverso i personaggi: dando ai fatti la complessità delle psicologie, dando alle persone la concretezza degli avvenimenti. In Preferisco il rumore del mare [...] i problemi non sono convenzionali, al contrario. Senza ottimismi sociali né sociologici, il film dice: a ciascuno il suo luogo e il suo destino; comprendersi l'un l'altro è molto difficile e si può non arrivarci; la discussione può creare confusione anziché far superare i conflitti; essere tutti uguali non è necessariamente il progresso, si è e si può restare differenti; neppure la buona volontà generosa o il volontariato possono omologare il Nord e il Sud, i ricchi e i poveri, le classi sociali; ogni cambiamento possibile avviene attraverso l'esperienza e il rapporto con gli altri. [...] Nessuna semplificazione, nessuno schematismo. Una ricchezza, invece, che nutre ogni episodio e ogni dettaglio mai insignificanti, sempre eloquenti e necessari. Il racconto, con la sua intelligente complessità, fluisce affascinante nello stile esatto, asciutto e denso del regista, nella fotografia molto bella di Luca Bigazzi. Gli interpreti sono tutti ben diretti, efficaci, e Silvio Orlando è ammirevole: ha compiuto su se stesso un lavoro fisico (la faccia sbiancata, il modo di portare i vestiti) sufficiente da solo a definire (umanamente, socialmente) il personaggio, e il suo sguardo obliquo mentre bacia l'amica basterebbe a descrivere un carattere» (L. Tornabuoni, “La Stampa”, 21.3.2000).
 
«Che il regista abbia voglia di lasciarsi alle spalle un'ormai insostenibile pesantezza dell'essere autore, autore e basta, lo dimostra la sua intensa partecipazione anche davanti la macchina da presa nei panni di Don Lorenzo: come se, inconsciamente, non credesse più alla forza dello sguardo; e, insieme, avesse colto l'indispensabilità di guidare gli eventi brevi manu, direttamente, senza bisogno di mediazioni. Il personaggio di Don Lorenzo è la chiave di volta del film, e non solo perché interpretato dal regista: non a caso il prete (un prete a sua volta proiezione "moderna" del Don Giulio di La messa è finita di Nanni Moretti) accompagna in treno Rosario quando, alla fine, il ragazzo vuole tornare nella sua Calabria; fino all'ultimo Don Lorenzo-Calopresti spera in un cambiamento, si augura che il suo status di autore-regista possa in qualche modo modificare, cambiare l'ineluttabile. Sarà, invece, il film a confermargli l'intuizione iniziale: sarà Rosario a determinare il cambiamento. Il ritorno di Rosario vale quanto la corsa verso il mare di Antoine Doinel ne I 400 colpi di Truffaut e nulla lo può fermare» (A. Fittante, “Segnocinema” n. 103, maggio-giugno 2000).
 
«Torino si mostra anche spazio refrattario all'accoglienza, confortevole con i figli adottivi che ne hanno metabolizzato freddezza e asperità, ma ruvido e avverso nei confronti di coloro che vi approdano per urgente necessità. In Preferisco il rumore del mare (2000), Torino è pressoché tutta racchiusa in inquadrature notturne, oscure, con le luci che si perdono nell'indistinto di uno sfondo sempre troppo lontano per non lasciar trasparire la solitudine che attanaglia ogni personaggio. Emerge una profonda inconciliabilità fra due universi, quello del profondo Sud da cui proviene il personaggio di Rosario, orfano trapiantato al Nord grazie all'intercessione paternalistica di Luigi, calabrese che ha fatto fortuna, e una Torino altoborghese fatta di egoismi privati, ipocrisie mascherate, lacerazioni profonde che cedono il passo a malcelati complessi di colpa. Un confronto tra persone e mentalità che può giungere ad un avvicinamento solo momentaneo, forse condotto per curiosità dell'altro - sentito come diverso, lontano - oppure per l’incomprimibile senso di isolamento che avviluppa i personaggi e che fa sì che non si realizzi mai un vero scambio, rendendo impossibile la comprensione effettiva. Se dal Sud si immagina un Nord "con le facce tutte grigie, malate", come rivela a Luigi il cugino calabrese Vincenzo, la visione settentrionale è quella di una Calabria perennemente assediata dal caldo: ognuno è preda del suo pregiudizio, al di là delle buone intenzione manifestate, e il preconcetto dapprima limita, poi demolisce completamente la possibilità di capire l'altro-da-sé. La difficoltà di comprensione, tuttavia, non è soltanto un problema di distanze marcate, di due differenti porzioni d'italia che vengono a contatto, quanto di un palese cortocircuito in una memoria incapace di rapportarsi compiutamente verso se stessa per far riaffiorare quel percorso personale che ha visto gli egoisti di oggi essere gli immigrati di ieri» (G. Frasca, “Quaderni del CSCI” n. 6, 2010).
«Al suo terzo lungometraggio, Mimmo Calopresti conferma una dote assai rara fra i registi italiani: la capacità di presentare personaggi vivi e concreti, le cui azioni si traducono in dati di realtà senza mediazioni o stonature. [...] Ancor più importante, Preferisco il rumore del mare non ha risposte da dare: alla fine, ogni personaggio si ritrova percorso da dubbi, tormentato da un qualche sentimento di colpa; si avverte imperfetto, o comunque inadeguato. Nulla pare aver senso, né esser meritevole di venir conservato: forse solo la pazienza positiva di Matteo che, nell'ultima sequenza, recupera il libro gettato in mare da alcuni suoi compagni e, con calma, riprende a leggerlo» (www.italica.rai.it).
 
«Il panorama descritto da Mimmo Calopresti è [...] intriso di linguaggi che non si comprendono, che si intrecciano ma non si uniscono, divisi da differenze di classe, di provenienza geografica, di generazione. Un segno di sconfitta che sembra radicato nel dna di ognuno, un destino che coinvolge non solo i personaggi principali del film ma anche le figure secondarie come la madre di Matteo, il nonno, la tata, la stessa Serena. L’incapacità di comunicare si riflette sull’incapacità di scelta: i personaggi del film non sanno scegliere, fanno in modo che le scelte siano stabilite da altri o, alla peggio, decidono per gli altri e non per se stessi. [...] Rosario è alla fine l’unico personaggio che sa scegliere, che “preferisce” il rumore del mare, dunque che stabilisce una direzione arbitraria, anche se non libera, alla propria strada. Il titolo del film è ispirato ad un verso del poeta Dino Campana che, nel suo poema I canti orfici, asseriva: “Fabbricare, fabbricare, fabbricare, preferisco il rumore del mare”. L’unico gesto di vera comunicazione sembra essere, così, la nuotata di Rosario nel mare, se per comunicazione si intende appunto un immergersi nell’altro, un compenetrarsi di due entità» (M. Dalla Gassa, cdm_webif/media/film).


Scheda a cura di
Vittorio Sclaverani

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