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ENCICLOPEDIA DEL CINEMA IN PIEMONTE

Cortometraggi e Documentari



La strada di Levi
Italia, 2006, 35mm, 92', Colore


Regia
Davide Ferrario

Soggetto
dal libro “La tregua” di Primo Levi

Sceneggiatura
Davide Ferrario, Marco Belpoliti

Fotografia
Gherardo Gossi, Massimiliano Trevis

Musica originale
Daniele Sepe

Suono
Gianni Sardo

Montaggio
Claudio Cormio

Interpreti
Umberto Orsini (voce narrante), Marco Belpoliti, Davide Ferrario, Mario Rigoni Stern

Direttore di produzione
Federico Mazzola, Emanuela Minoli

Produttore esecutivo
stripslashes(Ladis Zanini)

Produzione
Davide Ferrario per Rossofuoco, Rai Cinema

Distribuzione
01 Distribution

Note
Sottotitolo: 6.000 km. 10 frontiere. 60 anni
2798 metri.
Produttore associato: Francesca Bocca.
Film documentario realizzato con il sostegno del Ministero per i Beni e le Attività Culturali Direzione Generale per il Cinema e di Film Commission Torino Piemonte.
 
Contemporaneamente all’uscita del film è stato pubblicato il libro La strada di Levi. Immagini e parole dal film di Davide Ferrario e Marco Belpoliti a cura di Andrea Cortellessa, Editore Marsilio, Venezia, 2007.




Sinossi
Il 27 gennaio 1945, Primo Levi, autore dell’universalmente noto Se questo è un uomo, venne liberato dal campo di concentramento di Auschwitz. Gli furono necessari dieci mesi, dozzine di giri tortuosi, molti ritardi e migliaia di chilometri per tornare a casa, a Torino. Nel corso del lungo viaggio, Levi attraversò la Polonia, l’Ucraina, la Bielorussia, la Moldavia, la Romania, l’Ungheria, la Slovacchia, l’Austria, la Germania per giungere, finalmente, in Italia. Raccontò la storia delle sue avventure, degli incontri e le sue riflessioni in un altro famosissimo libro, La tregua. Sessant’ anni più tardi, il regista Davide Ferrario e lo scrittore Marco Belpoliti seguono lo stesso itinerario attraverso l’Europa post-comunista di oggi. La strada di Levi è un viaggio attraverso la storia e la geo-politica che ricostruisce l’avventura di Levi ma ritrae, al contempo, le condizioni dei moderni europei, visitando i resti dell’impero sovietico, Chernobyl, raduni neo-nazisti, villaggi di poveri emigranti…



Dichiarazioni
« Se devo dire cos'è il film, la definizione più giusta per descriverlo non è “documentario”, ma road movie. [...] Nel film troverete solo in parte l'aspetto biografico-storico. La scommessa era un’altra: vedere l’Europa di oggi con le parole di Levi ma con i nostri occhi. Quello che alla fine ci ha colpito di più è stato scoprire quanto le sue osservazioni fossero modernissime e, fuori dai luoghi comuni sul postcomunismo o la globalizzazione, rispecchiassero la nostra esperienza diretta. E anche questo vorrei dire con forza: bisogna riscoprire Primo Levi al di fuori della sua testimonianza su Auschwitz. Levi è un maestro del Novecento (una sua vittima, anche) che è stato troppo in fretta messo sullo scaffale dei classici senza confrontarsi con la sua profonda attualità di pensiero. [...] abbiamo cominciato a girare partendo proprio da Auschwitz; cercando di rispettare anche le stagioni del viaggio di Levi e seguendo un percorso geografico e insieme storico, per verificare con l’occhio sgombro del viaggiatore odierno l‘immagine dell’Europa dopo la Seconda guerra mondiale, dopo i campi di sterminio e la caduta del Muro. [...] Si tratta quindi anche (o forse soprattutto) di un film sull’Europa – su quella storica, “continentale” e su quella nuova che, tramite l’adesione alla Comunità Europea e/o alla Nato, è entrata – in certi casi si può dire ritornata – nell’alveo della tradizione occidentale. Ma anche quella che sta sui confini, incerta sulla sua identità. Vorremmo che la nostra sensibilità di intellettuali contemporanei si sovrapponesse all’autorità di Levi per raccontare la metà finale del secolo passato egli inizi di quello nuovo. Così come Levi descrisse una “tregua” personale, ma anche una tregua in senso stoico, quella tra la Seconda Guerra Mondiale e la Guerra Fredda; così noi vorremmo descrivere una nostra tregua contemporanea, quella che stiamo vivendo, sospesa tra la fine del conflitto Usa-Urss e qualcosa che ancora non percepiamo ma che si annuncia minaccioso. O che forse è già cominciato, senza che ce ne rendiamo conto» (D. Ferrario, “La Stampa – TorinoSette”, 12.1.2007 e 1.5.2007).
 
«È stata impor­tante […] la scelta - intervenuta solo a un certo momento - di osservare le stesse stagioni in cui avviene il viaggio di Levi. Ad Auschwitz, in gennaio, quest'idea non ci era ancora venuta, ma era anche una scelta obbligata: c'era il sessantesimo anniversario della liberazione del campo e solo in quell'occasione potevamo riprendere tutte le cose che si vedono nel nostro capitolo “La memoria”. A quel punto Fran­cesca Bocca, la produttrice associata, ha proposto di girare rispettando il susseguirsi delle stagioni nel libro. Produttivamente, una complicazione: ma una grande intuizione. II senso fisico del paesaggio, delle stagioni, è parte integrante della Tregua come del film. In ogni caso, alla fine, La strada di Levi è il nostro viaggio. […] L'atteggiamento in generale era: andiamo co­munque a prendere delle cose, perché non si sa mai poi che quello che ci sembra inutile ora non si riveli folgorante dopo. In linea di massima l'idea è che quando fai documentari devi portare a casa più materiale possibile e poi ripulire. […] Dal punto di vista del film, c'era il problema del finale. Abbiamo raccontato un'odissea, un ritorno a casa, e al ritorno a casa tutti dovrebbero essere felici. In questo caso però non c'è un ritorno felice perché non lo descrive così Levi nella Tregua, e poi perché sappiamo che Levi alla fine si è suicidato. In effetti questa è una domanda ineludibile. Perché nessuno riesce a evitare di leggere l'opera attraverso questo fat­to che all'opera è esterno. […]Se il film finisse con la sua morte, sarebbe una tragedia. Però non sarebbe una tragedia catartica, perché tu hai attraversato tutta l'Europa per novanta minuti, hai visto tutte le follie, le cose belle, le cose buffe, le contraddizioni, e in quel modo è come se mettessi una pietra tombale su tutto quello che hai visto e dicessi; be', comunque così finisce, Levi stesso dimostra che puoi guardare tutto, puoi conoscere tutto, ma alla fine ti butti dalle scale. Io invece come lettore di Levi, prima che come film-maker, questa cosa la rifiuto. Mi rifiuto di leggere tutto quello che ha fatto Levi alla luce del suicidio. Non so perché l'abbia fatto, non mi interessa neanche, vale quello che ha lasciato dietro di sé. Alla fine del film so che non posso finire su quella nota, sarebbe una nota di totale distruzione e negazione, per questo devo andare da Rigoni Stern che in parte è la stessa persona […] e in parte è l'opposto […]. Infatti il film oppone le immagini della natura di Asiago, dove c'è Rigoni Stern che cammina per i campi nel suo mondo lontano di trincee e resistenza, nel silenzio, nei boschi, e quelle di una Torino dai marciapiedi lividi, sovrastata da quei diavoli, le decorazioni sui cornicioni, che stanno a due isolati da casa di Levi. Non sono dovuto andare a cercarli, la cosa impressionante è che stanno dietro casa sua. Tutte que­ste presenze diaboliche erano quotidianamente sopra la testa di Levi. La città infernale è il contraltare di quel caos primigenio che cerca di descrivere nella Tregua, ed è anche il contraltare del Lager. Io ho tentato di rac­contare un personaggio che è lo stesso ma con due esiti diversi, uno che sull'Altopiano ha trovato una via di salvezza e un altro che dentro la Città s'è inabissato» (D. Ferrario, in Andrea Cortellessa, a cura, La strada di Levi, Marsilio, Venezia, 2007).
 
«Nell’ottobre del 2004 siamo partiti in cinque da Auschwitz su un’automobile per rifare il viaggio che Primo Levi ha raccontato nella Tregua. Avevo avuto l’idea di fare quel percorso da solo anni prima per osservare di persona i luoghi narrati nel libro. Poi, dopo aver visto un documentario di Davide Ferrario dedicato a Gianni Celati, mi sono convinto che probabilmente il cinema avrebbe raccontato meglio e a più persone quello che potevo scrivere in una serie di scarni resoconti. [...] Pian piano che si dipanava il tragitto cominciavamo a capire cosa ci interessava: l’andare e venire tra ciò che vedevamo con i nostri occhi – la nuova Europa sorta dopo il collo del Muro di Berlino – e le pagine che aveva scritto il giovane chimico torinese nella sua peregrinazione [...]. Lo sguardo del viaggiatore è rapido: conosce senza fare esperienza attraverso le differenze e le analogie. Nel corso dei quattro viaggi seguenti durati nel complesso tre mesi e mezzo, siamo tornati in quei luoghi per girare il film, affidandoci al caso, a quella divinità imperscrutabile che è l’Occasione. [...] Raccontare l’Europa oggi, andando e venendo dalle pagine di Levi, confrontandoci con le sue parole, ma anche con le nostre visioni quotidiane, non è facile; troppo complesse sono nazioni visitate e troppo carichi di memoria i luoghi attraversati: Lager, Gulag, Chernobyl, comunismo, neocapitalismo, emigrazione, conflitto linguistico, neonazismo. [...] La nostra condizione di viaggiatori nei 14-15 giorni di viaggio andava via via definendosi: un viaggio dopo la fine della tregua iniziata con la caduta del Muro e terminata con l'attacco alle Torri gemelle di New York. Il tempo di sospensione, analogo al tempo vissuto da Primo Levi, intercorso tra la fine della seconda guerra mondiale e l'inizio della guerra fredda, era terminato. Adesso avevamo davanti paesi e nazioni che ambivano a far parte dell'Europa, superando quella speciosa divisione tra Est e Ovest durata due secoli e mezzo, a partire dall'invenzione di un'Europa altra, diversa e barbara, compiuta dagli Illuministi nel Settecento. [...] L'ultima sequenza, ambientata a Torino, è molto forte [...] sulla soglia del ritorno in Italia, lo scrittore parla di ciò che lo attende a casa. Il brano anticipa di poco l'ultima pagina del libro con l'incubo pressante del Lager, l'incubo di essere ancora in un Lager, che si palesa bruscamente dopo le pagine picaresche del viaggio di ritorno. Nel materiale d'archivio in bianco e nero si vede Primo Levi che cammina rasente i muri, indossa il suo cappotto invernale e un berretto russo, va spedito verso la sua abitazione, attraversa il portone e scompare. Orsini legge un brano di Levi dedicato al tema della tregua, alla vita stessa come tregua, alla morte iscritta nella vita. Sono frasi icastiche, secche e insieme sagge, cariche di pathos» (M. Belpoliti, “La Stampa”, 13.1.2007).
 
«Nel libro di Levi ci sono tre de­clinazioni della parola "tregua", considerando anche le note dell'edizione scolastica del '65 sulle quali fra l'altro si conclude il nostro film. Un film, considerato da questo punto di vista, che è marcatamente circolare. Come del resto il libro di Levi, al cui inizio c'è la poesia che ricorda il Lager e l'imperativo in polacco, “Wstawa?”, “Alzarsi”. Il libro si chiude sulla stessa frase, sullo stesso suono anzi. Questa figura ad anello fa sì che tutto il periodo di vagabondaggio attraverso l'Europa sia la personale tregua di Primo Levi: tra il rilascio dal Lager - l'arrivo dei Russi, quindi la sal­vazione - e il ritorno dell'incubo che lo viene a visi­tare. All'interno di questo cerchio d'angoscia, però, è un libro allegro, scanzonato, picaresco. Quindi la tregua personale, psicologica di Levi coincide con la tregua rappresentata dal suo viaggio, il viaggio crea questa sorta di allegria, diciamo. C'è poi un secondo modo di intendere la "tregua", da parte di Levi: in senso storico. Quando il libro è stato scritto siamo all'inizio degli anni sessanta, la guerra fredda è al suo culmine. Proprio in quel momento lui ha modo di raccontare il mondo sconosciuto che si trova al di là della cortina, sia pure retrodatandolo al '45. Non il mondo dei Russi ma quello dei Sovietici […].Siamo partiti da Cracovia e da Auschwitz in ottobre. Era un ottobre molto bello... con una stagione che è restata quella fin quasi alla fine del viaggio, non è mai piovuto, c'era un sole splendido dappertutto... Abbiamo cercato i luoghi di Levi, pro­prio col libro alla mano, e abbiamo seguito il tragitto dopo averlo studiato un po' prima, ci siamo fermati alle soglie dell'Austria... […] Quello è stato il primo viaggio, nell'ottobre del 2004, una ventina di giorni. Questo primo viaggio è stato sino alla fine una specie di sceneggiatura impli­cita, l'unica che avessimo, io ho scritto dei pezzi sulla “Stampa”, Davide ha tenuto un suo diario, e sulla base di queste cose si è steso un trattamento. […] È stato importante il secondo viaggio che abbia­mo fatto: tornando nei luoghi in cui era passato Levi ma anche tornando dove eravamo già stati la prima volta. Qui ha preso forma il film, già questo secon­do viaggio era una specie di montaggio, un itinerario che non riproduceva più il viaggio in senso estensivo ma si muoveva tra i vari luoghi che avevamo già visi­tato, come preparando dei set per fare le riprese. Poi però trovavamo sempre delle cose nuove, cosicché il canovaccio si modificava strada facendo. […] Un'altra idea importante è stata quella, venuta a posteriori, di suddividere il nostro viaggio in capitoli ciascuno de­dicato a un tema. Perché in effetti, nella memoria, in ogni luogo ci appariva dominare una certa tematica, a seconda degli incontri che avevamo fatto. E anche questo è nello spirito di Levi: ci sono temi che ritor­nano, nella Tregua e nel resto della sua opera. Così abbiamo cadenzato il viaggio con questi cartelli. Per esempio la Polonia per noi resta legata al tema del Lavoro, Auschwitz a quello della Memoria  […] La terra promessa non è Israele, è l'Italia. Questo è evidente nel libro gemello della Tregua, Se non ora, quando?, quando Gedale e gli altri decidono di fermarsi. Que­sto radicamento culturale e linguistico in Italia secon­do me rende ancora più forte il suo discorso su Au­schwitz; la sua parte ebraica è presente, importante, ma non la più importante. Levi non è solo l'ebreo e il resistente; è l'uomo, è quello che è stato fatto al­l'uomo ad Auschwitz. È l'uomo in generale, i soldati sovietici e slavi, gli omosessuali, gli zingari. Così si spiega anche la sua assunzione di Dante, il padre del­la nostra lingua. Dante è la poesia, è la lingua, ma soprattutto è l'Uomo con la U maiuscola, insomma. Questa è l'universalità di Levi. Il passo finale l'abbia­mo letto e riletto anche per strada: “Giunsi a Torino il 19 di ottobre. Ma solo dopo molti mesi svanì in me l'abitudine di camminare con lo sguardo fisso al suo­lo, come per cercarvi qualcosa da mangiare”. L’idea di Torino è venuta leggendo queste parole» (M. Belpoliti, in Andrea Cortellessa,a cura, La strada di Levi, Marsilio, Venezia, 2007).





«La nostra tregua […] è quella che va dalla fine della guerra fredda, nell'autunno del 1989, agli attacchi terroristici a New York, l'11 settembre del 2001. II film viene concepito, realizzato e appare in un momento nel quale, secondo alcuni interpreti, in diversi luoghi del mondo, a partire dalla distruzione del World Trade Center si danno condizioni simili a quelle che resero possibile la Shoah: perché vengono commessi crimini contro l'umanità di natura (se non di portata) simile, oppure perché in maniera analoga vengono giuridicamente sospese le condizioni di cittadinanza. Riflettere di nuovo, oggi, su cosa sia "tregua" significa ridefinire il senso del termine come di un passaggio che separa sì due periodi di guerra ma, proprio nel fare ciò, tale guerra presuppone. A differenza della pace, cioè, la tregua è solo una sospensione delle ostilità: stato di eccezione […] Questo è dunque un film sulla memoria dell'Europa. Sulle forme nelle quali essa è stata o meno elaborata, celebrata o cestinata, confusa o mescolata con altre forme sociali di elaborazione dell'esperienza. Ma, esattamente come La tregua al suo inizio e alla sua fine cessa di essere altro per ritornare ad Auschwitz, questo resta anche un film sulla Shoah. Su quella parte della memoria europea, cioè, che a questa memoria resta crocifissa. Impossibile, dunque, evitare di sottoporre La strada di Levi ai paradigmi di verifica che, specie negli ultimi anni, sono stati messi a punto di fronte al numero sempre crescente di interpretazioni cinematografiche di questa memoria: tali da averla resa, ormai, un vero e proprio "genere". Una cosa che colpisce subito chi rifletta su questo repertorio è come quasi tutti quelli che hanno raccontato la Shoah per immagini, ove lo abbiano fatto per così dire "in sincronia" calandosi diegeticamente all'altezza cronologica degli eventi, non abbiano saputo evitare il rischio dell'edulcorazione e, in definitiva, del kitsch (rarissime le eccezioni, penso per esempio al Pianista di Roman Polanski, che però non a caso evita il confronto col Lager vero e proprio; non fanno eccezione, invece, il fortunatissimo La vita è bella di Roberto Benigni né La tregua, appunto, di Rosi). È un esito forse inevitabile: se il kitsch non è che la sanzione di chi si ponga compiti troppo elevati per le proprie risorse di elaborazione concettuale e formale» (A. Cortellessa, in La strada di Levi. Immagini e parole dal film di Davide Ferrario e Marco Belpoliti, Marsilio, Venezia, 2007).
 
«La storia comincia il 27 gennaio 1945 quando Primo Levi viene liberato dal campo di concentramento di Aschwitz. Gli furono necessari dieci mesi, dozzine di giri tortuosi, molti ritardi e migliaia di chilometri per tornare a casa, a Torino. [...] il film ricostruisce l’avventura di Levi ma ritrae, al contempo, le condizioni dei moderni europei, visitando i resti dell’impero sovietico, Chernobyl, raduni neo-nazisti, villaggi di poveri emigranti. [...] La strada di Levi è un road movie senza attori. La voce narrante dei novantadue minuti di immagini è di Umberto Orsini, da segnalare alla fine del viaggio la presenza sullo schermo di Mario RigoniStern» (D. Cavalla, “La Stampa-TorinoSette”, 12.1.2007).
 
«Ne La strada di Levi di Davide Ferrario e Marco Belpoliti è molto bella l’idea di rifare sessant’anni dopo il lungo e tortuoso percorso (6000 chilometri, 10 frontiere) compiuto da Prino Levi dopo il 1945 per tornare a Torio dal campo di concentramento nazista di Auschwitz. [...] Il viaggio vuol anche vedere quanto sia cambiata l’Europa centrale e orientale nel post-comunismo. [...] Cieli sconfinati, pianure, tronchi pallidi di foreste di betulle: la continuità della Natura sfida la precarietà delle cose umane. Mercati all’orientale, cimiteri, persone che ricordano, danno il senso della perennità della tradizione. Ucraina, Bielorussia, Moldavia, Romania, Ungheria, Slovacchia, Austria, Germania, collegate dalla bella voce di Umberto Orsini, sembrano terre bellissime e insieme campi di attaglia dopo la sconfitta, isole spopolate» (L. Tornabuoni, “La Stampa”, 19.1.2007).
 
«L'idea di ripercorrere La strada di Levi (questo il titolo del film) sessant'anni dopo è venuta a Davide Ferrario e a Marco Belpoliti, uno dei massimi studiosi dell'opera leviana, col duplice scopo di omaggiare l'autore (che compare subito in un filmato d'epoca, in visita ad Auschwitz) e di documentare i cambiamenti occorsi nel frattempo sulla scena politica, culturale ed economica in cui egli visse e viaggiò per dieci mesi. La tregua si trasforma così nella bussola di un disorientamento ricco di conseguenze narrative: se infatti sono mutati i mezzi, gli sfondi e i sentimenti, resta intatto lo spazio assegnato - poco importa se per necessità o intenzionalmente - al caso e all'imprevisto. E di questo Ferrario sa approfittare benissimo, lasciandosi trasportare da un desiderio puro di incontro, senza zavorre ideologiche o tesi da dimostrare o confronti da sottolineare. Levi gli offre un itinerario vagabondo e incerto, e il regista, senza troppe cautele, vi si abbandona completamente. Ne esce un cammino dal passo diverso, commentato dalle musiche "esotiche" di Sepe e punteggiato dalla "voce" (incarnata da Umberto Orsini) del romanzo» (L. Malavasi, “Rivista del Cinematografo” nn. 1-2, gennaio-febbraio 2007).
 
«Ripercorrete, oggi, le molte migliaia di chilometri che il 26enne Primo Levi più che avventurosamente percorse nel 1945 tra il gennaio della liberazione da Auschwitz ad opera dell'Armata Rossa e l'ottobre dell'arrivo a casa, a Torino. Quel percorso - e quello stato d'animo - che il 44enne Primo Levi, già affermato autore di Se questo è un uomo, avrebbe raccontato nel 1963 nel suo libro La tregua. Lo stato d'animo. II nodo attorno al quale il progetto di questo film muove è un confronto di stati d'animo, e di "tregue". Levi visse e poi raccontò oltre che la tregua personale dopo il campo, la tregua che il mondo visse tra la fine della guerra mondiale e l'inizio della guerra fredda. Anche il nostro mondo di oggi, dicono il regista e il suo coautore, ha appena finito di vivere un'altra tregua, quella tra la fine della guerra fredda simboleggiata dall'abbattimento del muro di Berlino e l'inizio di una nuova guerra con l'attentato alle Torri» (P. D’Agostini, “la Repubblica”, 19.1.2007).
 
«Nell'opera si respira un'anarchia concettuale e narrativa, che se da un lato ne costituisce il limite, dall'altro accentua lo spaesamento dello spettatore che ormai assuefatto ai documentari a tesi ormai dilaganti da qualche tempo sugli schermi, amplificando proporzionalmente anche la sua sorpresa. […] Ferrario pur nella complessità tematica che anima l'insieme e nel montaggio paratattico insito nella struttura visuale, non smarrisce la coerenza degli intenti. Il road-movie parte dal presupposto che Levi, dopo la fine della sua detenzione ad Auschwitz, non era un uomo libero ma un testimone delle profonde mutazioni socio-politiche che l'Europa del dopoguerra andava incontrando. In più il suo viaggio diventa qui un poema della solitudine, della ricerca di un appiglio per sottrarsi al buio dopo aver vissuto sulla propria pelle l'orrore dell'anti-semitismo, lungo le migliaia di chilometri percorsi per trovare una collocazione nello spazio-tempo della Storia. […] Quello di Ferrario è dunque un cinema che insegue un mutamento esistenziale, sociale e collettivo. L'Europa postcomunista illustrata da queste travolgenti immagini, che pur trascurano un collegamento tematico, spiegano come il vero artista debba ripiegare oggi su metodi anti-tradizionali per raccontare la società. […] A conti fatti ecco la conclusione sottintesa da questo film battagliero: quantomeno nell'Europa postcomunista esistono ancora forme del Male che sembrano irriducibili. Contro di esso si possono vincere battaglie, ma non la guerra, perché come l'Idra della mitologia greca, i suoi tentacoli si riproducono in continuazione, ed è immune alle smentite della Storia, cieca, sorda e impenetrabile a tutto fuorché alle sue stesse tenebre. Quelle che hanno continuato ad avvolgere Levi, anche quando è tornato alla vita torinese» (F. Zanello, “Segnocinema” n. 144, marzo-aprile 2007).
 
«Da Auschwitz a Torino, sessant'anni dopo, con gli occhi sgranati “sui paradossi in cui noi europei stiamo vivendo”. Lungo La strada di Levi, seguendo il percorso ricostruito dal Primo Levi nella Tregua, Davide Ferrario filma luoghi, paesaggi, incontri di un mondo nuovo, segnato dai fatti del passato, ma anche sospeso su un futuro incerto e contraddittorio. L'Europa che scorre dalla Polonia all'Ucraina, dalla Bielorussia a Chernobyl, dalla Moldavia alla Romania, dall'Ungheria alla Slovacchia è un posto dove “la globalizzazione rende tutto identico, ovunque. Le persone possono essere più libere, ma perdono la loro identità. Possono spostarsi dove vogliono, ma dove vanno se non appartengono più a nessun luogo?”» (F. Caprara, “La Stampa”, 19.10.2006).
 
«La strada di Levi di Davide Ferrarío (scritto insieme a Marco Belpoliti) è opera necessaria e struggente, imperniata sul concetto di viaggio e memoria: l'odissea di Primo Levi ritrova, a distanza di sessant'anni, la più dignitosa e insostituibile delle commemorazioni filmate, documento cinematografico che, partendo dalle suggestioni di La tregua, ne ripropone - attraverso un intelligente e funzionale parallelo con la condizione attuale - la carica originaria, al tempo stesso, emotiva e civile. [...] Oggi, come allora, l'inquietudine e l'incertezza regolano i nostri giorni: La strada di Levi prova a raccontarne le sfumature, senza avventare inutili e prevedibili risposte, andando in cerca di volti e luoghi dilaniati dai repentini cambiamenti avvenuti nel corso della storia più recente, eppure così immutati nella ripetizione di paradossi e contraddizioni. II vecchio continente, i suoi silenzi e i suoi colori, le sue terre abitate contemporaneamente da progresso e povertà. Per un invito alla Memoria che non dovrebbe essere disatteso» (V. Sammarco, “Film” n. 87, maggio-giugno 2007).


Scheda a cura di
Franco Prono

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