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ENCICLOPEDIA DEL CINEMA IN PIEMONTE

Lungometraggi



Signorina Effe
Italia, 2007, 35mm, 95', Colore


Regia
Wilma Labate

Soggetto
Wilma Labate, Francesca Marciano, Carla Vangelista

Sceneggiatura
Domenico Starnone, Wilma Labate, Carla Vangelista

Fotografia
Fabio Zamarion

Musica originale
Pasquale Catalano

Suono
Alessandro Zanon

Montaggio
Francesca Calvelli

Scenografia
Gian Maria Cau

Costumi
Nicoletta Taranta

Aiuto regia
Simone Spada

Interpreti
Filippo Timi (Sergio), Valeria Solarino (Emma), Sabrina Impacciatore (Magda), Fausto Paravidino (Antonio), Giorgio Colangeli (Ciro), Fabrizio Gifuni (Silvio), Gaetano Bruno (Peppino), Clara Bindi (nonna Martano), Luca Cusani (Felice), Marco Fubini (Angelo), Veronica Gentili (Cecilia), Luigi Lavagetto (ing. Federico Ferri), Ulderico Pesce (barista), Rosa Pianeta (Gianna), Franco Ravera (Carlo)

Casting
Stefania De Santis

Direttore di produzione
Giorgio Gasparini

Produzione
Donatella Botti per BiancaFilm

Distribuzione
01 Distribution

Note
Assistente alla presa diretta: Massimo Repole; montaggio del suono: Emanuela Di Giunta; microfonista: Simone Carnesecchi; assistente al montaggio: Claudio Misantoni; altri interpreti: Alessandra Vanzi (professoressa Ferrero), Roberta Carlucci (figlia di Silvio), Cristina Odasso (studentessa), Gian Maria Villani (studente), Toni Pandolfo (operaio anziano), Antonio Sinfisi (operaio), Paolo Parente (operaio), Claudio Castana (bidello), Daniele Bernardi (studente), Germano Giordanengo (impiegato), Massimo Del Sette (uomo all’incrocio), Alfredo Alpe (operaio vecchio), Fiammetta Olivieri (studentessa), Massimo Avella (cameriere), Aglaia Mora, Gustavo Frigerio; segretaria di edizione: Maria Vittoria Abbrugiati; organizzazione generale: Massimo Di Rocco, Luigi Napoleone, Giorgio Gasparini; location manager: Alessandra Curti; collaborazione alla produzione: Rai Cinema.

Film realizzato con il contributo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, il sostegno di Film Commission Torino Piemonte e il Patrocinio della Città di Torino.
 
Locations: Torino (Falchera, Circolo Canottieri Armida, Parco di San Vito, strada della Manta, industria Turin Auto, quartieri Mrafiori e Falcherana in piazza Vittorio Veneto, via Mazzini, via Pomba, pazza Bodoni), Roma. Le scene ambientate negli "Uffici Fiat" sono state girate presso DinoStudios.




Sinossi
Torino, 1980. La giovane Emma Martano, di origine meridionale, è impiegata alla Fiat in un settore nuovo, quello informatico. Ha faticato fin da piccola per conquistare un suo posto in società; ora sta per laurearsi in matematica ed è pronta a sposare Silvio, un maturo dirigente dell’azienda torinese, vedovo, con una figlia. Ma qualcosa la risucchia all’improvviso, confusamente, verso il basso. La Fiat annuncia che licenzierà quindicimila addetti. Ha inizio il lungo durissimo sciopero che dura 37 giorni. Nel clima di scontro senza quartiere tra azienda e classe operaia, Emma è sempre più attratta da un giovane militante che lavora alle presse, Sergio. E per tutta la durata dello scontro la ragazza vive un’intensa ma breve storia d’amore che mette in crisi la sua faticosissima ascesa sociale e la spinge a rompere con la famiglia e con l’uomo che vuole sposarla. Ma il conflitto sindacale spacca la comunità e le famiglie, travolge i singoli.



Dichiarazioni
«Di operai si parla sempre meno. Via via che si dismettono le grandi fabbriche, si smantellano i quartieri dormitorio, l’universo del lavoro non si racconta più. Ha perso di smalto e di spettacolarità. Un computer non ha lo steso fascino dell’officina, l’enormità di un reparto metalmeccanico non ha lo stesso impatto emotivo di un capannone dove s‘imballano cadaveri di polli nella plastica. Oggi è la vita fuori dalla fabbrica che parla e nel cinema è più protagonista il disoccupato che il lavoratore. Eppure l‘uomo che lavora alla macchina è corpo di cinema, offcina di cultura e di linguaggi. Il 1980 segna la fine del fordisimo e del movimento operaio, sconfitto da quei quarantamila quadri e impiegati che per la prima volta s’impadroniscono della piazza. Emma è una di loro, impiegata modello che perde la testa per l’operaio Sergio che odia chi lo vuole merce scaduta e non comprende una ristrutturazione di carattere epocale che cancella il suo ruolo politico. Disegnare il carattere di Emma è stata una sfida per Valeria, attrice fresca e intelligente e per me un confronto da donna a donna che ha tratteggiato i contorni di un personaggio fuori dagli schemi. Raccontare una dona a tutto tondo era un’urgenza sentita da sempre, puntare sul fascino di un’identità contraddittoria e autentica, mettere in scena il desiderio di vivere la passione senza indecisioni e di affrontare le conseguenze fino alla sconfitta finale. L’amore di Emma finisce quando gli oprai perdono, quando loro rappresentanti siglano l’accordo, quando si chiude la stagione della cultura politica operaia, del movimento più significativo della cultura del Novecento. Due passioni, una privata, l’altra collettiva, consumate nell’arco di 35 giorni» (W. Labate, dalla Cartella Stampa della Produzione).
 
«Il mio spazio nel film è ampio, e oltretutto ho potuto basarmi su una sceneggiatura molto accurata. Emma ha il compito di riscattare socialmente la sua famiglia, tutti guardano a lei. La confusione, il trauma, la passione che segnano la sua storia d’amore con un operaio sono una parte molto intensa del film» (V. Solarino, www.fctp.it). 





«Il titolo del film allude a un documentario di Giovanna Boursier (La signorina Fiat) che ricostruisce l'esperienza di un'impiegata dell'azienda torinese dal 1961 al 1994, anno in cui viene licenziata. [...] Nella rivisitazione della Labate, tuttavia, agli ingredienti classici - presenza dei temi sindacali, rappresentazione della fabbrica e della cultura operaia, tensione ideologica e militante - si affiancano una dimensione melodrammatica (la storia d'amore), per altro tenuta a freno da uno stile narrativo molto sobrio, e un gusto per la ricostruzione storica, sottolineato dai frequenti inserti di documenti d'archivio, servizi televisivi d'epoca e ritagli di giornale, che permettono di ricostruire la dinamica dei 35 giorni di sciopero degli operai torinesi, culminata con la manifestazione dei colletti bianchi, gli scontri fuori dallo stabilimento, la cassa integrazione. Eppure l'interesse del film non risiede semplicemente negli aspetti storico-documentari: il cinema, anche quando sembra riferirsi al passato, intende parlare in ultima analisi del presente, come dimostra la scena finale del film, che rappresenta la condizione sociale di Emma e Sergio, lei signora borghese, agiata, alle prese con lo shopping, lui tassista. La critica della prima ora, parlando di stile televisivo, schematico e didascalico, ha mostrato un'acredine forse eccessiva nei confronti di questa pellicola, ricorrendo a formulazioni che meriterebbero un maggiore approfondimento. [...] Mentre non è stato sufficientemente sottolineato quello che è forse l'aspetto più interessante di Signorinaeffe, vale a dire lo stretto legame tra pubblico e privato. ... Contrariamente a quanto lascerebbe prevedere il cliché televisivo a cui abbiamo accennato, il film ha una svolta assolutamente antiromantica: l'amore e il soggettivismo non bastano, il romanzo rimane - per citare il celebre saggio di Ezio Raimondi - "senza idillio"» (A. Bettinelli, www.effettonotteonline.com).
 
«Signorinaeffe è la storia di una rivolta individualistica, che è anche un sentimento pedagogico e libertario, un riflesso della complessa riflessione sui danni collaterali che le lotte di classe hanno prodotto nel nostro Paese. Nei film della regista romana la Storia non è dunque solo il tempo dove ambientare un racconto, dove far vivere e agire i personaggi, condizionati da eventi più grandi di loro, ma anche un personaggio da ascoltare e seguire nelle sue varie declinazioni e portatrice di una realtà tutta da verificare. Inutile dire del 1980 di Signorinaeffe, ché la storia è così divorante nei confronti della Fiat e di Torino, dove tutto è talmente vissuto con partecipazione da essere percepito come racconto cronachistico. La storia rappresenta così uno spazio, dove i personaggi come Sergio ed Emma arrivano a realizzarsi. E il loro smarrimento che attirato sguardo della Labate, l'istante in cui la Storia prende il sopravvento e tutto muta all'improvviso. […] la regista adotta una percezione delle cose che subisce un ribaltamento delle regole. II punto di vista è quello di uno sguardo che vuole sottolineare una storia di ribellione dal comune sentire. Un comune sentire come quello che fa superare l'esame universitario a Emma, solo perché conosce l'ingegnere Fiat, a dimostrazione di come uno sguardo estraneo e quindi non torinese come quello di Wilma Labate sia più profondo di quello di un cineasta legato alla realtà locale. Quindi la ricerca della regista verso le motivazioni dei personaggi appare come un passo in direzione del raggiungimento del portato politico del racconto» (F. Zanello, “Segnocinema” n. 150, marzo-aprile 2008).
 
«Ero preparato al peggio quando in un grigio pomeriggio romano si sono spente le luci nel cinema Greenwich. Ma ho capito ben presto di aver fatto bene a non fidarmi del coro di stroncature feroci che hanno accompagnato l'uscita di Signorinaeffe. [...] Con interessanti immagini storiche, il film fa rivivere i 35 giorni di sciopero e la famosa marcia dei 40mila che ha cambiato la storia del sindacalismo in Italia. Con un cast convincente, il film è un intreccio di passioni ed emozioni politiche e sentimentali, di sogni e delusioni. Sono uscito dal cinema soddisfatto per aver visto un film più dignitoso di tanti altri osannati dalla stampa nazionale, forse solo perché realizzati da registi più famosi» (G. Mumelter, “Internazionale”, 8.2.2008).
 
«Nel panorama prudente del cinema italiano, la scelta del tema è impegnativa e audace. Peccato che gli sceneggiatori abbiano puntato troppo sul metaforico intreccio sentimentale, riducendo all'essenziale il quadro politico. La Solarino, signorina inquieta, è brava, ma le emozioni vengono solo dai frammenti documentari» (C. Carabba “Corriere della Sera Magazine”, 31.1.2008).
 
«Con Signorinaeffe, Wilma Labate sceglie di raccontare la storia di uno sciopero operaio da un punto di vista complesso, attraverso gli occhi di una donna non operaia, proveniente da una famiglia operaia ostile alle lotte operaie. La Storia è protagonista e allo stesso tempo contesto di una storia d'amore, delle vicende personali di due giovani, Sergio ed Emma, di simili origini ma di opposta mentalità. In questo intreccio tra pubblico e privato si inseriscono filmati documentari che riportano costantemente in primo piano il tema storico ricordandone il livello superiore di realtà. […] Non è certo una novità inserire una vicenda personale in un contesto storico contemporaneo, tutt'altro, ma il contesto scelto da Wilma Labate è piuttosto inconsueto: lo sciopero, pacifico e disperato, senza eroismi, senza grandi gesti di violenza. […] In questo quadro di modernità desolata il fallimento dell'amore tra due giovani di simili origini ma opposte aspirazioni non è che l'ennesima sconfitta umana. […] Oltre ad essere la storia di uno sciopero, Signorinaeffe è una storia al femminile, incentrata sul personaggio di Emma, donna in fuga da un futuro per bene che non è in grado di accantonare del tutto, per opportunismo o per buon senso. […] Se il film sa osare sulla scelta del contesto e sulle spigolature sgradevoli di alcuni personaggi, non è altrettanto coraggioso nell'indagine del contesto stesso, dello sciopero, che appare nella sua forma più festosa con giovani che suonano la chitarra riuniti intorno ai falò. Sembra, insomma, più un'occupazione studentesca che una rivolta operaia di padri di famiglia terrorizzati dalla possibilità di perdere il lavoro. Secondo lo stesso processo non si fa cenno nel film al terrorismo, se non per dare modo a Sergio di prenderne le distanze in modo radicale. Così quelle che sono le forme della paura, subìta o imposta, rimangono al di fuori della Storia in Signorinaeffe, sebbene ne siano in parte il motore. È dunque questa pacificazione dei contenuti, questo sacrificare l'angoscia della Storia ai turbamenti della storia d'amore, il punto debole del film […]. Questa soluzione, piuttosto semplicistica, non intacca però quelli che sono i personaggi principali del film - Emma, Sergio, lo sciopero - la cui natura di sconfitti non viene smentita. Da quei trentacinque giorni sia gli operai del Lingotto sia Emma escono sconfitti, i primi piegati da una trattativa che non condividono e che li sacrifica, la seconda ricondotta dalle convenzioni e dall'opportunismo sulla via dell'ordine")» (C. Gustaldi, “Cineforum” n. 2/472, marzo 2008).

«Bianco e nero, 1931, la Fiat è ancora un sogno, la pista sul tetto del Lingotto una strada verso il cielo, il lungo spot d'epoca che apre Signorinaeffe un capolavoro di furbizia e seduzione. Stesso luogo, il Lingotto, oggi. L'ex-fabbrica è uno shopping center, irriconoscibile, come i due protagonisti invecchiati. Che nel resto del film vivono e simboleggiano con il loro amore il fatale ottobre 1980 [...] Fin qui la robusta struttura di questo mélo operaio. Che però scricchiola un poco sotto i troppi vuoti che deve riempire. Vuoto storico, vuoto politico, vuoto cinematografico (un solo precedente notevole, di recente: Così ridevano di Amelio). Difficile recuperare tutto in una volta sola, e il film procede per grandi sintesi: le presse, gli uffici dei dirigenti, la casa degli operai in lotta, Timi e Paravidino, contrapposta a quella della Solarino, figlia di un lavoratore meridionale ma ansioso di ascesa sociale che nella figlia studiosa e fidanzata a un ingegnere vede un'occasione unica. I conti storici e ideologici tornano, fin troppo. Torna meno il conto dei corpi, l'affollarsi di umori e passioni. Giusto riesumare un mondo e storicizzarlo. Ma alla fine il film, quasi didattico, conferma ciò che si sapeva, non rivela uno sguardo nuovo» (F. Ferzetti, “Il Messaggero”, 18.1.2008).
 
«La storia d'amore sembra voler raccontare con sincerità anticonformista un certo opportunismo o una viltà delle donne e della piccola borghesia, una loro superficialità sentimentale. Nella storia di lotta sindacale, i materiali di repertorio storici sono benissimo armonizzati al film, con una sapienza che raramente altri hanno raggiunto. Lo sforzo per tenere insieme i due elementi, per dare alla vicenda amorosa un valore metaforico,nuocciono allo slancio del racconto e allo stile (La mia generazione e Domenica, precedenti film di Wilma Labate, erano più belli) e gli attori sono modesti. È ammirevole la serietà coerente della regista nel voler rinnovare il ricordo di momenti che per l'Italia, per Torino e per la Storia nazionale sono stati essenziali» (L. Tornabuoni, “La Stampa”, 18.1.2008).
 
«La parte politico-sindacale (scioperi, assemblee, cortei) è realistica, ben fatta: si armonizzano bene i brani filmati e quelli di materiali di repertorio. La presenza contemporanea di questi due tipi di riprese abbassa lo stile del film, lo rende un poco piatto: La mia generazione o Domenica di Wilma Labate erano girati con maggior perizia e bellezza. Ma la storia così fuori del comune e così viva rende Signorina Effe interessante, e induce a desiderare che fra tanti film rétro ce ne siano molti sui movimenti più significativi della storia del Novecento in Italia» (L. Tornabuoni, “La Stampa”, 1.12.2007).
 
«[...] la regista romana (Domenica, La mia generazione in repertorio) gira un “melò con le virgolette", storia di passione tra l'impiegata Valeria Solarino (Emma) e l'operaio Filippo Timi (Sergio). [...] Tra filmati di repertorio girati dalla tuta blu Perotti, uno dei 23mila licenziati, e le immagini della votazione davanti ai cancelli della Fiat già utilizzate da Sabina Guzzanti e Francesca Comencini (nel documentario In fabbrica), Signorinaeffe vorrebbe raccontare una ferita ancora aperta. Detto fatto, ne risulta un film slabbrato, precario, indeciso se abbracciare in toto il love affair tra Timi (dignitoso) e Solarino (incolore e fuori parte) o alzare il pugno sul cotè socio-politico. Se la regia è "a tirar via", l'ultima parte del film denuncia impietosamente limiti di budget e tempo per le riprese, ulteriormente indebolita da molteplici ed esausti sottofinali. Forse ha ragione proprio la Labate, "il '68, gli anni '70 finiscono nel 1980, dopo tutto è confuso". Anche al cinema» (F. Pontiggia, “Rivista del Cinematografo” nn. 1-2, gennaio-febbraio 2008).
 
«Quando abbiamo presentato in anteprima Signorina Effe al Torino Film Festival, mi sono accorto che conoscevo tre quarti della gente che c'era in sala: a parte qualche sindacalista più giovane, quelli dalla mia età in su li conoscevo tutti. Erano lì per lo stesso motivo mio: quel film racconta anche la nostra storia. [...] Per Lotta Continua la fine della corsa fu il congresso di Rimini, nel `76, quando il movimento si sciolse. Ma a Torino Lc era forte, e continuò a mostrarsi, a prendere iniziative, e la sede storica di corso San Maurizio continuò a esistere fino agli Anni Ottanta. Fu proprio la. Marcia dei Quarantamila a segnare la sconfitta, a chiudere un ciclo: da lì ciascuno s'è sentito autorizzato a ripartire con una strada propria. Era finita. [...] Ecco, direi che la cosa migliore del film, la più realistica, è la descrizione del clima dei cortei interni, che per noi studenti erano un mito: nessuno di noi li vedeva, te li raccontavano gli operai che li facevano. E ti davano un'idea di forza, di centralità della classe operaia. Rivelavano la debolezza della catena di montaggio, la sua vulnerabilità: bastavano pochi operai per mettere in ginocchio l'azienda. Ci affascinava la loro durezza, ma anche la creatività: ci raccontavano che mentre sfilavano cantavano Sandokan, la sigla dello sceneggiato tivù con Kabir Bedi. Come una canzone di lotta. Era la "cultura di massa" che investiva il movimento... [...] Il cambiamento doveva passare dalla fabbrica, di questo eravamo tutti convinti. La sconfitta dell'80 fu la sconfitta di quell'idea, la fine dell'illusione: non potevi più immaginare una classe operaia tanto forte da cambiare la società. Non riusciva neppure a risolvere i suoi, di problemi» (S. Della Casa, “La Stampa”, 17.1.2008).

«Esperienza di vita in fabbrica Wilma Labate ne ha avuta. Non dietro una pressa, ma come documentarista nelle sue prime opere degli anni 80 e poi di nuovo nel ’93, girando raffinati clip industriali per una grossa casa automobilistica. Per questa sua terza prova, la Labate sceglie però la fabbrica come simbolo per eccellenza della lotta di classe e presenta, almeno nei presupposti un classico modello narrativo attanziale: la bella, l’amato, l’amante non (più) corrisposto. [...] In una Torino molto lontana dalla città risplendente i luci, eventi culturali che è oggi, i personaggi della Signorina Effe, ispirati dal documentario del 2001 Signorina Fiat di Giovanna Boursier, si muovono in una città operaia grigia, austera ma dignitosa» (V. Flora, “Daily Torino Film Festival”, 1.12.2007).

«Dispiace non dire tutto il bene possibile di un film che, quanto meno, ha il coraggio di affogare nella Torino operaia, pressoché dimenticata dalla politica, dalla sociologia e finanche dall’ultimo cinema. Anche se lo fa tornando indietro, in quell’inizio di decennio dominato dall’edonismo reaganiano, quando a scendere in piazza furono i colletti bianchi, nell’ormai famosa “marcia dei quarantamila”. E dunque, dove sono i problemi? Nella scrittura, soprattutto, male endemico del nostro cinema post epoca d’oro. Personaggi tagliati con l’accetta, dove naufragano persino Gifuni e Timi, due bravi attori di solidissima esperienza teatrale. Famiglie stereotipate, a cominciare dal patriarca. E un contorno che non riesce a riportare alla luce quella particolare atmosfera che si respirava nelle fabbriche nei tempi gloriosi della classe operaia» (A. Fittante, “FilmTV”, www.film.tv.it).
 
«Non è neppure solo il plot narrativo, la trama, che fa acqua da tutte le parti, a mandarci in bestia, sebbene la banalità di certe sue trovate (la ditata di grasso sulla camicetta linda quale espediente "simbolico" per fare incontrare l'impiegata e l'operaio, è da segnalare ai Razzies Award) ricordino più un melò scalcinato o una fiction di bassa lega che un film. Se fosse tutto qui parleremmo di una brutta pellicola, particolarmente brutta, ma in fondo innocua, salvo che per la sensibilità estetica degli spettatori. A renderla davvero indigesta è però altro, è l'incuria, la sciatteria, l'urticante incompetenza (o la lucida disinformazione) con la quale si pretende, dietro il raccontino dei turbamenti sentimentali di una ragazza, di rappresentare una stagione, quella della conflittualità operaia, di un cielo ventennale di lotte che culminò nel 1980 con lo sciopero dei 35 giorni (11 settembre-15 ottobre) e che si concluse con la famosa marcia dei Quarantamila. E che l'ambizione spudorata della regista Wilma Labate (romana engagé, autrice tra l'altro di un lungometraggio sul terrorismo rosso e di un documentario apologetico sulla Palestina) fosse quello di tentare una riedizione del cinema militante è confermato dalla scelta emblematica, didascalica e, a tratti, pure pedagogica dei personaggi: il dirigente d'azienda, borghese fintamente progressista che per carriera svende le proprie convinzioni originarie e si ritrova a guidare squadracce di picchiatori, il puro e ingenuo operaio di linea, cosciente e coscienza della sua classe, idealista e generoso. [...] Tutto, come detto, spaventosamente scontato: lo scioperante è buono e il crumiro cattivo, il padrone vince e gli operai soccombono, la Torino grigia e il Sud solare. Una congerie di stereotipi e di macchiette stucchevoli che impedisce di capire ciò che successe realmente in quei giorni e che non può non offendere coloro che, pur su opposti fronti, vi si trovarono coinvolti» (B. Babando, “Il Domenicale”, 9.2.2008).
 
«Vi siete mai chiesti perché i film americani sulla classe operaia, inclusi quelli prodotti dalle majors, sembrano più “veri” dei nostri? Jane Fonda in Lettere d'amore, Sally Field in Norma Rae, Meryl Streep in Silkwood, perfino Charlize Theron nel recente North Country. Le vedi sullo schermo in ruoli da operaie tessili o metallurgiche e ci credi; eppure sappiamo bene che sono (erano) star hollywoodiane, quindi dotate di glamour, ossessionate dall'immagine, attente ad amministrarsi. Una risposta possibile? Abilità mimetica degli attori, bravura dei registi, ma soprattutto la speciale sensibilità sceneggiatoria nel ritrarre, in una chiave umana e politica non asservita all'ideologia, la ruvidezza della lotta sindacale, l'insidia del crumiraggio, la fatica del lavoro materiale, insomma quelle che un tempo si chiamavano le contraddizioni della lotta di classe. [...] Proprio ciò che non succede in Signorina effe, nuovo film, anche coraggioso, di Wilma Labate. D'accordo, gli operai al cinema non tirano più. [...] Wilma Labate, cineasta con pedigree tutto a sinistra,vicina a Rifondazione, già regista del controverso La mia generazione, sembrava la persona giusta. [...] Tuttavia - parere personale - il film non convince. Perché, alla fine dei conti, la storia d'amore risulta un pretesto, diciamo un tirante narrativo, per parlare d'altro. [...] Per questo, pur nell'accorto dosaggio delle psicologie e delle tipologie, il risultato è cosa spesso prevedibile. [...] In una prima stesura del copione, Emma moriva investita dal più fetente dei dirigenti, e nell'epilogo, vent'anni e passa dopo, si vedeva Berlusconi in tv. Per fortuna, gli sceneggiatori ci hanno ripensato. Ma resta un senso di vago disagio vedendo Signorinaeffe» (M. Anselmi “Il Riformista”, 18.1.2008).
 
«Una storia d'amore, di passione, di perdimento, dietro la quale si vede tutto - o quasi - quello che c'è da vedere di quel 1980 alla Fiat. [...] Dopo 35 estenuanti giorni di sciopero, i 40mila colletti bianchi scenderanno in piazza sostenendo, più o meno consciamente, quel progetto di restaurazione. C'è chi, come la regista Wilma Labate, vede in quella sconfitta il primo inequivocabile segno della fine della lotta di classe operaia. Anzi, la fine degli operai come classe. Da quell'ottobre in poi l'Italia prenderà un'altra strada. Come Emma, che da quell'ottobre in poi dovrà fare i conti con la sua indeterminatezza e decidere quale strada prendere per il suo futuro. Nella migliore tradizione del cinema italiano, Wilma Labate sceglie una storia privata per parlare di quella pubblica, stringe l'obbiettivo sui personaggi per allargarlo sul paese. E ad ulteriore merito, decide di usare una giovane donna come perno dell'intera costruzione narrativa e filmica. La stessa macchina da presa sembra muoversi assieme alle emozioni della giovane, alle sue impennate di passione, alla carnalità dei suoi vent'anni. Restano fuori terrorismo e pistole, ma trova invece corpo la fabbrica, anche se poco inquadrata. Quella delle presse, del rumore assordante, del grasso. La Fiat come cittadella medioevale del fordismo, con le sue scale, i passaggi, le gerarchie, i corridoi, i cancelli. Ancora più bella, l'atmosfera umana che Labate riesce a ricreare, restituendoci un'epoca oscura dove però alla tavola della domenica sedevano famiglie assieme a sconosciuti e dove per le strade d'Italia ci si amava felici, e con orgoglio. Per quell'Italia, sì, che nostalgia...» (R. Ronconi, “Liberazione”, 18.1.2008).
 
«Tutt'altro che brutto Signorinaeffe, realizzato con molta cura. Interessante e coinvolgente. Ma è difficile sottrarsi a qualche dubbio. [...] Lo snodo è narrato attraverso personaggi "esemplari". Emma (Solarino) figlia di operaio avviata a una carriera da quadro e al matrimonio con un ingegnere (Gifuni), scettico verso le nuove strategie padronali cui aderisce per gelosia. Il padre di Emma (Colangeli), vecchia guardia di immigrato che ha lavorato a testa bassa, non ha mai scioperato, punta tutto sul salto sociale della figlia. Sergio (Timi), tipico esponente dell'autunno caldo, sindacalizzato e politicizzato: tra lui ed Emma una passione furiosa, attrazione e disprezzo. Finisce che "perdono" tutti? Ma non basta a temperare lo schematismo del film» (P. D’Agostini, “la Repubblica”, 18.1.2008). 




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