Torino città del cinema
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ENCICLOPEDIA DEL CINEMA IN PIEMONTE

Lungometraggi



La seconda volta
Italia, 1995, 35mm, 80', Colore


Regia
Mimmo Calopresti

Soggetto
Heidrun Schleef, Mimmo Calopresti

Sceneggiatura
Heidrun Schleef, Francesco Bruni, Mimmo Calopresti

Fotografia
Alessandro Pesci

Musica originale
Franco Piersanti

Musiche di repertorio
Africa Unite

Suono
Alessandro Zanon

Montaggio
Claudio Cormio

Scenografia
Giuseppe Gaudino

Costumi
Lina Nerli Taviani

Interpreti
Nanni Moretti (Alberto Sajevo), Valeria Bruni Tedeschi (Lisa Venturi), Valeria Milillo (Francesca), Marina Confalone (Adele), Orsetta De Rossi (Raffaella), Paolo De Vita (giudice Di Biagio), Simona Caramelli (Sonia), Francesca Antonelli (Antonella), Antonio Petrocelli (Ronchi), Rossana Mortara (studentessa), Nello Mascia (dottore), Roberto De Francesco (Enrico), Walter Malosti



Produzione
Nanni Moretti e Angelo Barbagallo per Sacher Film, Banfilm, La Sept Cinéma, Raiuno, Canal Plus

Distribuzione
Lucky Red

Note
Suono in presa diretta.
Gli esterni del film sono stati girati a Torino.
 
Tra gli interpreti del film compare Lorenzo Ventavoli, noto esercente cinematografico torinese e studioso del cinema italiano - e torinese in particolare -; anche molte delle comparse sono amici del regista: Carlo Rosso (esercente cinematografico) che passeggia con la figlia, il filmaker Claudio Paletto nel ruolo di un operaio.
 
Premi: David di Donatello 1996 a V. Bruni Tedeschi come Miglior Attrice Protagonista e a M. Cofalone come Miglior attrice non Protagonista; Nastro d’Argento 1996 a N. Moretti e A. Barbagallo come Migliori Produttori; Spiga d’Oro 1996 del Valladolid Film festival a M. Calopresti come Miglior Regista.




Sinossi
Nanni Moretti interpreta Sajevo, ex dirigente Fiat ora docente universitario il quale anni prima è stato vittima di un attentato terroristico ad opera di una brigatista adesso in semilibertà, che lui incontra casualmente a Torino. Lui la riconosce subito. Lei invece ha rimosso quel frammento di passato e non lo riconosce. I due cominciano a frequentarsi. Lisa finge di essere un’impiegata come tante altre. E Alberto finge di crederle, pur sapendo che ogni sera la donna deve rientrare in carcere dove sta scontando una pena di trent’anni, trasformata in regime di semilibertà. Ha inizio così un crudele gioco psicologico attraverso il quale Alberto tenta di trovare una risposta all’interrogativo che lo ossessiona da anni. Risposta che, forse, non esiste.




Dichiarazioni
«A Torino dove vivevo e lavoravo, sono stato chiamato a dare dei corsi di video in carcere, nell'ambito di una iniziativa per il reinserimento dei detenuti, "Opera Omogenea" . Lì ho conosciuto alcuni ex-terroristi rossi dissociati, che ho continuato a frequentare per un anno, anche al di fuori dal carcere, nei loro rispettivi posti di lavoro, unica possibilità per vederli. Di sera, come la protagonista del film, dovevano tornare in carcere. Da questi contatti è nata l'idea della sceneggiatura. L'ho proposta a vari produttori senza successo. Il copione era giudicato favorevolmente, ma tutti mi dicevano che un film sul terrorismo era ormai superato e poco opportuno. Poi ho conosciuto Moretti, in occasione della sua venuta a Torino per le riprese del suo documentario La cosa, nel quale ho svolto un servizio logistico. Moretti aveva sentito parlare della sceneggiatura, e mi ha chiesto di fargliela leggere. [..] Quando Moretti e Barbagallo (coproduttore) hanno deciso di produrre il film, la sceneggiatura era già stata mandata al concorso "Solinas", dove in seguito vinse il primo premio. La sceneggiatura è stata riscritta. La struttura è rimasta immutata, ma, dopo aver scelto il cast, abbiamo rielaborato il dialogo, riscrivendolo in funzione di Nanni Moretti che interpretava la parte del professore. [..] Moretti è stato prezioso anche come regista, in quanto mi ha aiutato in certe scelte di regia, facendomi capire quanto si potesse usare liberamente il mezzo cinematografico» (M. Calopresti, www.tempimoderni.com).
 
«Da notare che mentre scrivevamo la sceneggiatura per La seconda volta le critiche più frequenti che mi venivano rivolte erano del tipo: “Ma a chi frega oggi del terrorismo?…” Questa domanda me la ponevo spesso anche durante la lavorazione del film e la storia di Lisa e Alberto, così forte e particolare, la proiettavo quasi inconsapevolmente contro quest’indifferenza generalizzata. I due prendono l’autobus, camminano molto, frequentano bar e ristoranti sempre però nell’indifferenza degli altri. Quella che si vede nel film è in realtà una Torino abbastanza domestica, stranamente domestica. I giardini si trovano vicino a dove abitavo prima, i portici, i bar, i posti insomma che conosco nella loro quotidianità. Per me comunque in questa Torino era fondamentale metterci la fabbrica e le sue trasformazioni degli ultimi anni, queste hanno modificato qualcosa nella città. Oggi non so bene quali siano i risultati di queste trasformazioni, so solo che mi sono ancora incomprensibili e conosco dei dati: ci sono più disoccupati di prima. Volevo far vedere la Fiat; la Fiat c’è, ci sono le macchine e i robot, però non mi volevo chiudere. Non cercavo un film politico, non che abbia qualcosa in contrario contro i film politici – ce ne sono di splendidi – ma cercavo, con più modestia, di far incontrare due persone e due solitudini, di metterle una di fronte all’altra e di capire quello che succedeva. Mi interessavano solo Lisa e Alberto, della gente intorno a loro m’importava pochissimo. Infatti i due a tratti quasi galleggiano, staccati come sono dall’ambiente circostante. Cinematograficamente mi hanno sempre appassionato quei film dove ci sono due persone che attraversano una città. Uno dei miei film preferiti in assoluto è À bout de souffle di Godard perché ci sono questi due che continuano a incontrarsi e attraversano tutta Parigi e di tutto quello che c’è intorno non ti importa nulla» (M. Calopresti, in D. Bracco, S. Della Casa, P. Manera, F. Prono, a cura di, Torino città del cinema, Il Castoro, Milano, 2001).
 
«C'è sempre stata fin dalla sceneggiatura l'idea di una liberazione da una ossessione. Il carcere d'altra parte l'ho visto come una sorta di sicurezza per Lisa, in realtà lei è contenta la sera di tornare in carcere, starsene lì, per cui nel finale il suo tornare dentro non lo vedo come un rinchiudersi definitivo, lo vedo come una risposta a quel momento. Forse anche per lei il gesto finale è un momento di superamento. Non vedo in assoluto una connessione tra reato e individuo, spero che ci sia sempre un viaggio più breve per passare da una condizione a un'altra, in continuazione. La condizione di "ex", ex-­vittima ed ex-assassino, è ancora una volta un voler imprigionarsi nel ruolo. Mi piacerebbe che la forma di liberazione per Lisa fosse quella proprio dal termine “ex-terrorista". […] Il filo che scorre nel rapporto tra i due, e uno dei temi del film, è proprio il "riconoscersi". Alberto continua a dire "ma hai capito chi sono? Mi riconosci? Come è possibile che tu non mi riconosca... “ Il gioco del pedinamento, la finta seduzione sono già legati a questo desiderio di essere riconosciuti. Fin dalla sceneggiatura c'era l'idea di un personaggio che reclamava all'altro un riconoscimento quasi come la conferma vitale di una identità... […] C'è una forma di occultamento da parte di Lisa, un occultamento anche del suo mondo. C'è un comportamento strano, che Valeria Bruni Tedeschi rende benissimo, per cui la sua vita appare esteriormente pacifica, mentre interiormente è tormentata. È un bisogno generale di essere anonima, non farsi riconoscere da nessuno. Ma questo poi magari viene tradito dai suoi sguardi, dai suoi moti affettivi. […] Per me il nascondersi è sempre stato legato al problema del riconosci­mento. Dalla prima idea del film ho sempre pensato che Lisa non dovesse riconoscere Alberto, allora mi chiedevo: "ma come è possibile che lei non lo riconosca?", poi parlando con una persona che aveva fatto questa esperienza del terrorismo, mi ha detto che questo era possibile, e che anzi per lei era un processo che metteva in atto fin da quei tempi» (M. Calopresti, “Filmcritica” n. 463, marzo 1996)..
 
«Quello che mi ha attirato di più nella sceneggiatura era il taglio col quale era raccontata una storia del genere. Al contrario del cinema d'impegno civile o politico, che non ho mai particolarmente amato, la sceneggiatura di Calopresti non cercava di manipolare il cervello dello spettatore, poneva domande senza pretendere di dare risposte. Mi piaceva il finale, anti-drammatico, senza la risoluzione che anche gli spettatori più avvertiti si aspettano. Un finale che prende tutti in contropiede. [..] Nei miei film, ho sempre preso in giro i miei amici, ho sempre raccontato il mio mondo. Ora sento il bisogno di raccontare quello che sta succedendo in Italia anche al di fuori di questo ambiente. Ma non so ancora quale tono adottare, e quale formato. Un documentario? Un film? Oppure une lunghissima antologia di quello che si è visto in televisione negli ultimi due anni... » (N. Moretti, www.tempimoderni.com).





Dopo qualche tentativo di Marco Tullio Giordana (Maledetti vi amerò e La caduta degli angeli ribelli) e di Gianni Amelio (Colpire al cuore), a metà degli anni Novanta il cinema italiano fa i conti con il grande rimosso dell’ultimo quarto di secolo, il fenomeno del terrorismo. Proprio perché conosce bene l’argomento essendo stato insegnante nel carcere delle Vallette, dove ha realizzato con alcuni detenuti il video Ripresi, Mimmo Calopresti, affronta questa tematica sul piano della vita privata: il legame che si crea tra una ex-terrorista e un dirigente industriale che era stato sua vittima. Sono riconoscibili molti luoghi di Torino: la stazione di Porta Susa, piazza Solferino, alcuni quartieri della periferia industriale, e c’è anche una lunga sequenza girata all’interno dello stabilimento Fiat di Mirafiori. Ma l’architettura urbana rimane sullo sfondo, quasi una presenza metafisica rispetto alla vicenda umana dei due protagonisti. Valeria Bruni Tedeschi ritorna nella città dalla quale la sua famiglia si era allontanata negli anni Settanta per evitare i pericoli del terrorismo. Nanni Moretti è produttore e protagonista del film; la sceneggiatura originaria era stata scritta per un protagonista più anziano di lui ed era stato offerto il ruolo a Murray Abraham.
 
Il primo lungometraggio di Mimmo Calopresti nato in Calabria e vissuto a Torino, documentarista sociale, è un racconto morale ambientato in una Torino assai riconoscibile. Uno dei pregi maggiori  di questo esordio cinematografico è nell’ambiguità della storia e soprattutto dei personaggi. Non si è cercato l’effetto, il taglio netto, la banalizzazione dei protagonisti, delle storie, la loro riduzione a “icona”, a luogo simbolico, su cui riflettere. Al contrario quella di Alberto e Lisa è la loro storia, piccola, infinitesimale di due persone vissute in un momento particolare delle loro vite, su due lati diversi delle “barricate”. Una convinta di essere in guerra, l’altro, del tutto ignaro di cosa e perché stia accadendo. La seconda volta è soprattutto la vicenda di due persone legate da qualcosa di molto forte: sono entrambe delle vittime della (loro) storia. Calopresti non cerca di spiegare, anzi, come i migliori narratori di oggi, opera per sottrazione, tra le righe, tra gli sguardi, tra i dialoghi volutamente e necessariamente superficiali. E realizza, con la complicità di un Moretti, ispirato come attore e attento come produttore, un film del tutto “intimo”, un piccolo, intenso racconto morale.
 
«Torino e la sua ombra, la paura, segnata dalla luce opaca di una città divenuta paesaggio di una inquietudine che trapassa il fotogramma, in una ripetuta sospensione, e il racconto di una attesa che vuole riscoprire fatti accaduti per ristudiarne la logica. Tra due poli - la donna (Valeria Bruni Tedeschi) e l'uomo (Nanni Moretti) scende l'ombra, o meglio il fantasma della lotta, del terrorismo, del “segno” che ha marcato la storia degli anni settanta; da una parte la voglia di parlare, di contraddire, dall'altra il silenzio di chi ha già parlato: il contrasto tra il borghese “perbene”, chiuso in se stesso, che interroga, che vuole capire quello che non può capire e l'altra monade che ha con sé il carico del passato, l'ideologia di un qualcosa che è inevitabilmente accaduto, che non interroga né dà risposte. Calopresti, sovvertendo le regole del “genere”, ha scelto il chiaroscuro, senza sforzare sugli antagonismi. Ha costruito un film lineare nella sua “pluralità”. È plurale la flagranza della ideologia nel volto chiuso, limpido, consapevole della donna e il dubbio espresso nella “lettera non spedita” dell'uomo arroccato nel suo apparente rifiuto; è pluralità e non indifferenza la capacità di “mostrare” in un film “politico” l'eccezione e la regola, di cogliere in quella Torino autunnale, il respiro delle emozioni, insinuandosi nella realtà quotidiana, nella abitudine alle tavole calde, ai tram affollati, ai percorsi sempre uguali. Ognuno - sembra ripetere, con Renoir, - ha le sue ragioni. Un film che respira ai margini, che rifiuta l’enfasi propria del film di genere e riscopre il valore della sospensione, deIla pausa, della parola interrotta» (M. Causo, “Filmcritica” n. 463, marzo 1996).
 
«Non c'è alcuna pietas, alcuna possi­bilità di perdono, né di dialogo, no­nostante la ragazza abbia seppelli­to il suo passato, Sorretto da una matura padronanza registica e dal­la interpretazione di Valeria Bruni Tedeschi (una vera rivelazione) e di Nanni Moretti (ma sono eccel­lenti anche gli altri, Marina Confa­lone, Valeria Milillo, Roberto De Francesco), La seconda volta pati­sce della rigidezza imposta dagli sceneggiatori al conflitto rappresentato. […] A sorprendere sfavorevolmente è la sommarietà e la staticità psicologi­ca di due personaggi, separati da un fossato incolmabile. Il film par­rebbe non avere una tesi e non identificarsi né con l'ex terrorista, né con il professore offeso dalla presunta disinvoltura con cui la ra­gazza tenta di ricostruirsi un desti­no. Tuttavia, La seconda volta implici­ta l'esistenza di universi che sareb­be preferibile restassero incomuni­canti. Malgrado Valeria Bruni Te­deschi presti a Lisa un intimo tur­bamento e un'aria spaurita e di­messa, nel film si ha la sensazione di assistere alla incarnazione di due entità cristallizzate apposta per meglio servire il programma esplicativo del copione, ossia una critica di natura morale verso rav­vedimenti non insinceri, ma nean­che investiti da un profondo esame di coscienza» (M. Argentieri, “Cinemasessanta” n. 1, gennaio-febbraio 1995).
 
«[…] uno dei pregi maggiori di questo bell’esordio cinematografico, è proprio nell’ambiguità della storia, e soprattutto dei personaggi. Non si è cercato l’effetto, il taglio netto, la banalizzazione dei protagonisti, delle storie, la loro riduzione a “icona”, a luogo simbolico, su cui riflettere. Al contrario quella di Alberto e Lisa è una storia, è la loro storia, piccola, infinitesimale storia di due persone vissute, in un momento particolare delle loro vite, su due lati diversi delle “barricate”. Una convinta di essere in guerra, l’altro, del tutto ignaro di cosa e perché stesse accadendo. Perché La seconda volta è soprattutto una storia di persone, di due persone legate fortissimamente da qualcosa di molto forte: sono entrambe delle vittime della (loro) storia. Ma Calopresti non cerca di spiegare, anzi come i migliori narratori di oggi opera per sottrazione, tra le righe, tra gli sguardi, tra i dialoghi volutamente e necessariamente superficiali. […] Il problema del linguaggio è uno dei punti nodali del film. Entrambi si muovono in una realtà in cui non sono più così importanti, entrambi sono prigionieri dei loro mondi. Alberto legge e rilegge i libri scritti dagli ex terroristi ed è colpito, ossessionato, disgustato dal loro linguaggio, di ieri e di oggi. All’afasia di allora, che si esprimeva in lunghi e deliranti comunicati e con l’uso delle armi, Lisa replica oggi con il silenzio, con la rimozione della parola, della comunicazione verbale. Le parole mancano, il linguaggio è insufficiente. Quelli che allora non parlavano nelle assemblee, parlavano nelle strade a suon di pallottole, esibendo un’incapacità di esprimersi attraverso linguaggi socialmente accettabili. Quelli che parlavano ne son divenute vittime. Se non i capri espiatori, come la vicenda Sofri insegna. Per Alberto la parola è invece tutto. Perché la usa nel suo lavoro di professore universitario, perché è attraverso la parola che cerca di “riconquistare” l’attenzione di Lisa. Perché alla fine cos’è che vuole Alberto da Lisa? Non vuole perdonare, vuole solo che lei non dimentichi, ma soprattutto vuole essere considerato da lei come una persona, non come un simbolo. E viceversa. C’è un momento, bellissimo, nel film, in cui alla stazione Alberto le svela la finzione. Lei gli sfugge, si alza e va via. Lui la rincorre sulle banchine e per la prima volta la chiama: “Lisa!”. Come ha detto Calopresti, qui Alberto finalmente la riconosce come essere umano. […] Il finale è necessariamente aperto. Il tentativo di un rapporto tra i due viene frustrato. Non c’è, oggi, speranza di una vera comunicazione» (F. Chiacchiari, “Cineforum” n. 350, dicembre 1995).
 
«Il primo film di Mimmo Calopresti […] è un racconto morale, dunque qualcosa di raro nel cinema italiano. Descrive per la prima volta la condizione attuale degli ex terroristi in semilibertà, raggiunge una piena consonanza tra forma e contenuti, adotta un approccio serio, sensibile, rigoroso, e anche se le idee di regia sono poche riduce la piattezza e monotonia dello stile con la profondità dell'analisi e l'interpretazione. Nanni Moretti è grande, la sua faccia carica di segni esprime con mezzi minimi e intensità le emozioni del professore: l'impassibilità coatta di chi ha dovuto subire l'insopportabile, rancore, curiosità, una sfumatura di cattiveria vendicativa, l'ostinazione di chi cerchi di curarsi con un farmaco amarissimo; e Valeria Bruni Tedeschi è bravissima con il viso opaco, gli sguardi sabbiosi, l'andatura dimessa, la calma ingannevole delle vite negate» (L. Tornabuoni, “La Stampa”, 28.10.1995).

«Strano film, La seconda volta, bello e inquietante, coraggioso ma cauto, astratto ed esatto come Torino nella tersa fotografia di Alessandro Pesci, forte ma lievemente reticente per chi si aspettava da Mimmo Calopresti, dalla Sacher di Moretti e Barbagallo (e da Francesco Bruni e Heidrun Schleef, co-autori col regista della sceneggiatura) la capacità di spingersi più a fondo, di sondare zone inesplorate. […] Un film è fatto anche di ciò che non si vede, e qui molto è lasciato all'immaginazione. Per questo l'esordio di Calopresti, 40enne, calabrese di Torino […], resta dentro, scava, scuote, scopre nervi e ricordi sepolti. Ma non fuga del tutto la sensazione di una cautela perfino eccessiva. Atona, opaca, imbruttita, la Bruni Tedeschi rende a meraviglia il suo personaggio bruciato dentro, imbelle, quasi afasica, ma si resta con la voglia di saperne di più. Anche perché gli autori del film erano le persone giuste per provarci, anziché lasciarla in una nebbia di scelte sciagurate e casuali» (F. Ferzetti, “Il Messaggero”, 29.10.1995).

«Più che il tema proposto - di cui non intende offrire alcuna lettura chiusa o definitiva - La seconda volta si segnala per il modo di raccontare. Nanni Moretti, con la sua severità savonaroliana e il suo trasparente disagio nel mondo degli altri, è bravo come non è mai stato. Valeria Bruni Tedeschi, che si segnala come una attrice di sostanza, ha una dolente timidezza, l'umiltà sottomessa di chi sa di aver sbagliato e guizzi di durezza da irriducibile. E gli interpreti sono tutti bravi, anche nei ruoli minori e di contorno. Ma sorprendono soprattutto la scioltezza della cinepresa di Calopresti, la naturalezza degli sfondi torinesi fotografati benissimo da Alessandro Pesci, la puntualità delle scenografie e dei costumi, l'efficacia di un copione che non fa mai suonare una battuta fuori tono anche quando deve disegnare la difficile mappa delle ideologie di quegli anni. Potrà forse lasciare perplessi il finale aperto: ma il film non vuole dare risposte, solo farci affrontare, attraverso due intensi ritratti umani, un problema che ha segnato la nostra vita civile» (I. Bignardi, “la Repubblica”, 29.10.1995).
 
«Scalzone ha inviato a Locarno una video-lettera da Parigi dal titolo Ma le parole sono importanti, realizzata pochi giorni fa daArmando Ceste e Alex Vitagliano: venti minuti di monologo (incorniciati dalla famosa gag della lettera dettata da Totò a Peppino: quella di “punto, due punti... “) dove Scalzone [...] accusa il film di trascurare le ragioni degli esuli del terrorismo, rimprovera alla stampa italiana di avere stravolto il suo ruolo e la sua immagine in quell'occasione. E alla fine, invita Moretti e gli altri a incontrarlo per discutere assieme, rilanciando il dibattito su una soluzione politica di amnistia o di indulto. Mimmo Calopresti, il cui film è stato presentato fuori concorso al Festival con un largo seguito di pubblico [...] non nasconde il fastidio per il prolungarsi della polemica: “La video-lettera è proprio brutta, ma in un certo senso l'ho vista con sollievo perché mi libera definitivamente dal ricatto affettivo nei confronti di Scalzone. II fatto è che Scalzone si mostra di nuovo presuntuoso: ha la sua spiegazione su tutto e cerca di imporla, senza confrontarsi minimamente. Nella Seconda volta io ho tentato di capire un po' meglio eventi che non sono ancora stati ben capiti; perciò ho messo a confronto i due personaggi della vittima e della ex-terrorista, per cercare di comprendere meglio le ragioni di entrambi. A questo pudore Scalzone contrappone l'arroganza, come fece a suo tempo il terrorismo decidendo per tutto il movimento. Non voglio negare a nessuno il diritto di parola e sento l'urgenza del problema dell'amnistia, ma non è questo il modo giusto per proporre la discussione. Peccato, perché preferirei volere bene a Scalzone. [...] Il video dimostra soltanto che sono bravi a usare i mezzi di informazione, il che significa che hanno un grande talento per il potere. Ma è la maniera che non posso approvare. Sono cose da dire in modo semplice, non violentando la gente. Scalzone guarda a D'Annunzio, mentre il mio film è piuttosto leopardiano”» (R. Nepoti, “la Repubblica”, 18.8.1996).
 
«Sul filo del cortocircuito mnemonico si pone […] La seconda volta, in cui Torino è il palcoscenico funzionale di una dolorosa reminescenza in grado di connettere l'incertezza del presente con la violenza rimossa degli "anni di piombo". Mentre, sullo sfondo, il refrain ossessivo della metamorfosi industriale fa da soglia di separazione di un universo che ha cambiato strutturalmente i suoi connotati pur lasciando aperte le ferite purulente, Torino si manifesta topograficamente davanti alla macchina da presa di Calopresti come un insieme di segmenti fissi che si irradiano dalla centrale piazza Solferino per poi dipanarsi secondo un correlativo oggettivo, in virtù del quale a precisi punti della città corrispondono altrettanto fisse attribuzioni di significato. Piazza Solferino è il fulcro ambientale e narrativo, lo spazio in cui, dopo l'avvistamento di Lisa, la terrorista che Io ferì dodici anni prima, Sajevo sprofonda nuovamente in un passato da cui si è ripreso solo apparentemente (il proiettile è ancora all'interno del suo cranio). Da questo luogo parte la raggiera dei riferimenti delineata da Calopresti, pronta ad espandersi al carcere delle Vallette, simbolo e materializzazione della pena, ma anche, al contempo, visto il regime di semilibertà cui è sottoposta Lisa, spiraglio possibile attraverso il quale il passato riemerge, sovrapponendosi traumaticamente al presente. Fino ad andare oltre, al circolo canottieri Armida lungo il Po, spazio intimo, protetto, in cui Sajevo cerca di salvaguardarsi dal tumulto delle relazioni per le quali pare non essere ancora completamente attrezzato. Oppure alla via Po, nella quale la passeggiata di Lisa si trasforma in un percorso di emarginazione e illusione rispetto al contesto cittadino, sottolineato da piani a limitata profondità, pronti sintomaticamente a ritagliare il personaggio dalle comparse, presenti ma non completamente a fuoco, allegoria di un'esistenza solo apparentemente condotta con criteri normali. Tra questi luoghi, un mezzo di contatto, l'autobus, spazio di negoziazione in movimento in grado di far oscillare gli equilibri tra i due personaggi; intorno, una Torino autunnale, dagli alberi spogli e dal sole pallido, ultimo emblema di un'epoca di transizione che nel cinema di Calopresti pare non aver mai avuto veramente fine» (G. Frasca, “Quaderni del CSCI” n. 6, 2010).
 
«La seconda volta attraverso l'incontro tra due persone incrociabili diventa […] un racconto morale sulla memoria, o meglio sul diritto ad avere una memoria dei conflitti degli anni Settanta e delle loro ragioni, evocando una cicatrice interiore che continua a bruciare per il comportamento sconsiderato di diversi reduci della lotta armata da cui si preferirebbe maggiore discrezione e pudore. Opera prima di Mimmo Calopresti, […] è un'opera di notevole equilibrio sostenuta da due splendidi caratteri - Moretti che fa l'attore sul serio con momenti di grande intensità, Valeria Bruni Tedeschi bravissima nella parte dell'enigmatica Lisa - mossa da un procedere semplice, tradizionale, che fa riflettere sul peso del dolore e sul senso di colpa ereditati dal periodo del terrorismo, un fenomeno più rimosso che superato dalla storia nazionale» (A. Cantelli, “Il Giornale”, 2.11.1995).


Scheda a cura di
Vittorio Sclaverani

Persone / Istituzioni
Mimmo Calopresti
Heidrun Schleef
Francesco Bruni
Alessandro Pesci
Franco Piersanti
Alessandro Zanon
Claudio Cormio
Lina Nerli Taviani
Nanni Moretti
Valeria Bruni Tedeschi
Valeria Milillo
Roberto De Francesco
Giuseppe Gaudino

Luoghi
NomeCittàIndirizzo
caffè PepinoTorinopiazza Carignano
carcere delle ValletteTorinocorso Regina Margherita
Libreria DruettoTorinoPiazza San Carlo
lungo PoTorino-
Maria Vittoria, viaTorinovia Maria Vittoria
palazzoTorinopiazza Solferino
Palazzo NuovoTorinovia Sant'Ottavio
San Carlo, piazzaTorinopiazza San Carlo
Società di canottaggio EsperiaTorinocorso Moncalieri
Solferino, piazzaTorinopiazza Solferino
stazione di Porta SusaTorinopiazza XVIII Dicembre
stazione Porta NuovaTorino-
Umbria, corsoTorinocorso Umbria
Vittorio Veneto, piazzaTorinopiazza Vittorio Veneto



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