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ENCICLOPEDIA DEL CINEMA IN PIEMONTE

Cortometraggi e Documentari



Tempo di riposo
Italia, 1991, Bvu, 44', Colore


Regia
Daniele Segre

Soggetto
Daniele Segre, Carlo Colnaghi

Fotografia
Paolo Ferrari, Egi Ruggiero, Daniele Segre

Suono
Simone Carraresi

Interpreti
Carlo Colnaghi



Produzione
I Cammelli

Note
Collaborazione al soggetto: Luciano Sorrentino.

Parte delle riprese sono state effettuate in Vhs e U-Matic.





Sinossi
«Cos’è nella vita di un uomo il “tempo di riposo”? Un’interruzione volontaria, una pausa, oppure una smagliatura, un incidente, capaci di creare nel tempo di lavoro (o di vita?) un’intermittenza, una zona vuota, a postulare almeno metaforicamente il principio del non ritorno, della devianza, dell’uscita di scena? In Tempo di riposo, un video di 44 minuti che potrebbe, a piacere del regista Daniele Segre e del protagonista Carlo Colnaghi, estendersi a film di lunghezza standard o agevolmente tradursi in pièce teatrale, è in questione proprio il pendolarismo tra un dentro (la norma, la normalità, il controllo, ma anche l’essere controllati) e un fuori (l’anomia, il guasto, la refrattarietà, il sottrarsi ai codici), descritti come terreni limitrofi e forse complementari dell’avventura del vivere e della sua rappresentabilità. Un ex attore, il quarantaseienne Carlo Colnaghi, legato negli anni ‘60 al laboratorio del Piccolo Teatro di Milano, viene riconvocato oggi dalla macchina da presa di Segre a raccontare di sé e delle tappe che hanno segnato la sua vicenda esistenziale e professionale. Ne esce un monologo duro, serrato, impietoso e allo stesso tempo umanissimo, che molto dice di chi ne è insieme il soggetto e l’oggetto, ma ancora più di quel perimetro potente e terribile che è lo spazio scenico, luogo magico e misterioso, capace di contenere e rendere visibile l’interdetto senza addomesticarlo, senza esorcizzarlo. Fornito di una solida partitura e di un riconoscibile impianto narrativo che lo sottraggono alla gabbia stretta del cinema di documentazione e, tanto più, all’illusione del cinema verità, Tempo di riposo è un testo filmico sfaccettato e dai molti livelli. Da interrogare con lo stesso coraggio e la stessa inquieta intensità con cui, come opera, interroga e aggredisce il suo pubblico» (www.torinofilmfest.it).




Dichiarazioni
«Tempo di riposo nasce dall'esigenza di riattivare le capacità attoriali di Carlo Colnaghi più che in funzione di Manila. È stato un lavoro di ricerca per verificare se Carlo era ancora in grado di rapportarsi alla messa in scena. II video è stato una nuova stazione importante rispetto al mio modo di lavorare, ragionare e interpretare la realtà, in questo caso portando l'esasperazione del linguaggio a livelli ancora più alti rispetto a Vite di ballatoio, per fare un esempio. Qui c'è stata un'ulteriore contaminazione fra la finzione e la realtà. In questo caso disponevo di uno strumento -un attore - che mi permetteva anche più possibilità di giocare in questo terreno strano, ambiguo, in cui ritrovo sempre meglio la mia identità come regista. Per un artista a volte il tempo di riposo può rappresentare il tempo dell'angoscia, il tempo dell'attesa, un'attesa che a volte non finisce mai e che diventa devastante da un punto di vista psicologico. Nel caso particolare, è riferito a quel tempo che non è assolutamente definito nel momento in cui tu inconsciamente stacchi la spina con la realtà e ti trovi in una situazione estremamente precaria.  [...] È una situazione di grande fragilità, dove sei totalmente scoperto e aperto a qualunque tipo di violenza, violenza in questo caso interna al sistema che vive con altre regole e altri ritmi. Quindi, nel momento in cui Carlo è stato chiamato qua, innanzi tutto è stato attivato un rapporto umano, che gradualmente ha generato idee: l'idea di scrivere Manila, che poi è stata rivista con l'amico Davide Ferrario. Non è comunque stato facile iniziare, nel senso che io per qualche tempo ho avuto dei problemi miei nel rapportarmi a una personalità così complessa e così difficile come quella di Carlo. Poi, improvvisamente mi sono trovato cosciente di una forma espressiva che credevo di non possedere e quindi tutto si è generato rapidamente come se mi fossi posto davanti a dei fogli bianchì e di getto fossi riuscito a riempirli. Questa incubazione è però durata quattro anni, nei quali il rapporto con Carlo è andato avanti: viene quasi tutti i giorni alla "Cammelli", dà una mano, collabora con la cooperativa e in più sistematicamente ha ripreso a misurarsi con la sua precedente attività, quella dell'attore: legge, è a contatto con certi testi, con un universo al quale voleva appartenere ma dal quale si è allontanato per problemi di carattere psichiatrico e atteggiamenti di rifiuto di un mondo poco sensibile. Ho trovato in lui l'attore ideale, che poteva rappresentarmi al meglio, perché lui stesso non viveva questa situazione solo da un punto di vista intellettuale, ma come uno che aveva tentato di fare l'attore, attraversando in modo violento i rifiuti, le rabbie, le delusioni e anche l'autodistruzione. Era lo strumento ideale per mettere in piedi questa storia. Nel momento in cui ci siamo messi all'opera direi che ci siamo usati a vicenda, con grande correttezza e rispetto umano. In alcuni momenti è stato veramente grande. Nel Woyzeck, ad esempio, gli ho chiesto di riprodurre la dislessia, lui che nei momenti di crisi, in passato, l'aveva anche avuta. È stato eccezionale, ha riprodotto un fatto patologico, è stato un bravo attore capace di convogliare nella forma espressiva tutta la sua esperienza personale, anche la malattia. Glielo ho chiesto trenta secondi prima di girare, lui l'ha fatto. Il film è stato presentato a Stoccolma, a un congresso di psichiatria, come un caso di schizofrenia risolto. Alcuni psichiatri americani si sono messi a piangere. Il video è servito a Colnaghi a riprendere contatto con la vita. In qualche modo. attraverso Tempo di riposo sono riuscito a mettere a fuoco i miei incubi. È un bilancio di anni trascorsi, di attività che mi ha trovato in terreni diversi, con individui -chiamiamoli così - diversi. Ma quasi tutti caratterizzati da una non identità che in qualche modo mi contaminava perché appartenevano al mio mondo. [...] Tempo di riposo in fondo mi ha aiutato a recuperare la serenità perduta, a rimettere a fuoco in uno scenario devastato i bisogni che mi appartengono» (D. Segre, “Cineforum” n. 314, maggio 1992).





«Il video Tempo di riposo (1991) e il lungometraggio Manila Paloma Blanca (1992) nascono dall\\\'incontro di Daniele Segre con Carlo Colnaghi, che di entrambi è diventato a tutti gli effetti il fulcro, come protagonista ma anche come soggetto, corpo piagato da un materiale autobiografico di inusuale durezza. Dopo essere stato uno degli allievi più promettenti del “Piccolo”, a una certa svolta della sua esistenza, Colnaghi - usiamo quasi alla lettera le parole di Segre - ha inconsciamente staccato la spina con la realtà, avventurandosi oltre i confini della norma sociale, in un non vivere destabilizzante, per sé e per gli altri, partecipando a situazioni al limite della follia se non addirittura di follia, esposto alla violenza del mondo in virtù della propria fragilità e sensibilità. Alla base, dunque, cè anzitutto un sodalizio personale, certo non facile ma indubbiamente fecondo, e non solo dal punto di vista artistico. Partendo da elementi del vissuto di Colnaghi cui si sovrappongono, coincidendo, esperienze ed ossessioni di Segre, prende forma l'idea di Manila Paloma Blanca, che viene rifinita a livello di sceneggiatura da Davide Ferrario. Ma il progetto rimane tale fino a quando non arrivano i magri finanziamenti del famigerato articolo 28, e nel frattempo attore e regista sentono l'urgenza di dare comunque uno sbocco a questa sofferta sintonia. Sarebbe perciò sbagliato considerare il video come una sorta di prova generale del film, in una forbice che va dal momento di documentazione alla sinopia, tanto forte risulta l\\\'autonomia linguistica del primo, pur nell'ambito di quello che rimane con evidenza un unico disegno artistico. Al di là di altre peculiarità riscontrabili attraverso un ben altrimenti puntiglioso lavoro di collazione, Tempo di riposo riesce infatti ad accumulare, "in proprio", una serie davvero impressionante di coppie oppositive problematicamente aperte: arte-vita, normalità-follia, realtà/finzione, esperienza/rappresentazione, professionalità/sregolatezza, moralità/compromissione, marginalità/integrazione... E, in maniera altrettanto incisiva, sa attingere ad un elevatissimo livello stilistico, ad un rigore nella scelta e nella concatenazione del materiale diegetico da costituire, se non un punto d'arrivo, certo un risultato di assoluto rilievo nell'ambito dell'iter autoriale di Segre. [...] Al di là delle differenze nella durata, nell'uso del supporto o, in maniera un po' meno grezza, nell'influenza di due fotografi dotati di forte personalità (Paolo Ferrari, le cui luci attribuiscono un implacabile nitore all'immagine elettronica, Luca Bigazzi, che riesce a fare virtù espressiva della necessaria povertà del 16mm, perfino - ci sembra - delle imperfezioni dovute al "gonfiaggio" in 35mm.), Tempo di riposo e Manila Paloma Blanca presentano dunque una diversa articolazione di struttura. Concentrata fino all'implosione e allo strazio quella del primo, più complessa e aperta quella del secondo, legata com'è, in qualche modo, all'ossequio ad uno standard obbligato del "prodotto da sala". È forse semplicistico parlare di cinema di poesia per l'uno, di cinema di prosa per l'altro, anche perché, quasi fatalmente, questa schematizzazione finirebbe per comportare un giudizio di valore, del tutto incongruo applicandosi ai due segmenti di un work in progress. Sarà ovvio, ma rimane comunque doveroso sottolineare come entrambi appaiano letteralmente squassati dalla presenza, granitica e fragile, attonita e perturbante, di Carlo Colnaghi» (P. Vecchi, in Antioco Floris, a cura, Daniele Segre - Il cinema con la realtà, Editrice CUEC, Cagliari, 1992).
 
«Tempo di riposo [...] è un terribile ritratto di ex attore, Carlo Colnaghi, 46 anni, legato negli Anni Sessanta al laboratorio del Piccolo Teatro di Milano, oggi uscito di scena, solo, povero, disturbato, per tre quarti d'ora racconta in primo piano se stesso, rivolto al regista invisibile o agli spettatori: magro, tormentato, con i capelli grigi, ha gli occhi vuoti della nevrosi, la faccia desolata agitata da repentini sussulti, le dita inquiete che toccano insistenti le guance, le labbra. Ogni tanto, provocatoriamente o distrattamente, si toglie la dentiera e seguita a parlare agitandone i pezzi davanti all'obiettivo. Ogni tanto, appassionatamente, prende a recitare: Shakespeare, Woyzeck. Racconta la sua disperazione: “Mi sento a disagio, vuoto, nullo, solo, senza nessuno con cui parlare. Non mi va di lavorare, il lavoro è una condanna. Ho bisogno di una donna, di una casa, di una vera amicizia. Non sono più andato alla Usl perché non ho più voglia di vedere dottori e handicappati. Non ha più senso andare dagli amici a chiedere le venti, le trentamila lire per tirare avanti..” Vorrebbe andarsene: “Penso di partire, quando mi danno il passaporto. Ho pensato di andare in Africa, o in Jugoslavia”. Ricorda il passato: l'adolescenza trasgressiva; gli amici (“uno che era stato in manicomio, poveretto, e parlava senza sapere a chi parlava, vivevamo insieme in una topaia, ma ci andava bene così”); le ragazze, lo studio della recitazione, i compagni che hanno fatto carriera (“si sono integrati in un sistema a cui avrei voluto appartenere, da cui mi sono autoeliminato e mi hanno eliminato”). Parla del teatro: “Certe notti sogno d'essere in palcoscenico”. Parla d'amore: “Ho fatto l'amore con una donna due anni fa, ma la dentiera non me l'ero levata”. Il lungo terribile monologo mescola confessione e recitazione: ma un attore non smette mai d'essere tale, i confini tra artificio e verità s'imbrogliano, i testi teatrali e i resoconti di vita si completano e nutrono a vicenda condensandosi nella faccia logorata e straziata del monologante. Daniele Segre è sempre stato interessato alle marginalità, alle vite perdute o trovate e alla cognizione del dolore, nel suo cinema che è una forma di fiction anche quando si presenta come documentario: con Tempo di riposo va oltre, arriva a una narrazione filmica solida e densa, intensa e strutturata che suscita, insieme con la pietà per il soggetto del racconto, il dubbio dell'ambiguità, del complotto d'autore, della recitazione senza fine» (L. Tornabuoni, “La Stampa”, 20.7.1991).


Scheda a cura di
Franco Prono

Persone / Istituzioni
Daniele Segre
Paolo Ferrari
Carlo Colnaghi


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