Altri titoli: Fille d'amour, Die Geliebte
Regia Vittorio Cottafavi
Soggetto Tullio Pinelli, Federico Zardi, da "La signora delle camelie" di Alexandre Dumas
Sceneggiatura Tullio Pinelli, Siro Angeli
Fotografia Arturo Gallea
Operatore Armando Nannuzzi
Musica originale Giovanni Fusco
Suono Giovanni Canavero
Montaggio Loris Bellero
Scenografia Giancarlo Bartolini Salimbeni
Arredamento Giancarlo Bartolini Salimbeni
Trucco Luigi Sturiale
Aiuto regia Carla Ragionieri
Interpreti Barbara Laage (Rita), Armando Franciol (Carlo Rivelli), Eduardo De Filippo (Ceriani), Gabrielle Dorziat (signora Zoe), Marcello Giorda (ing. Rivelli), Adolfo Geri (Donati), Luigi Tosi, Lina Acconci, Gianna Baragli, Arrigo Basevi, Alberto Collo, Tony Di Mitri, Carlo Hinterman, Elodia Maresca, Ebe Vinci
Direttore di produzione stripslashes(Vieri Bigazzi)
Ispettore di produzione Ermanno Pavarini
Produzione Giorgio Venturini per Produzione Venturini, Synimez
Distribuzione Enic
Note Nulla Osta n. 14.929 del 1.9.1953; 2.670 metri.
Assistente operatore: Claudio Cirillo; fotografo di scena: Paul Ronald; musicisti: Louis Menardi, Armando Renzi, Franco Ferrara; costruzioni: L. Luzi, D. Quercioli; parrucchiere: Carlo Grillo; assistente alla regia: Luigi Marchitelli; organizzazione generale: Giampaolo Bigazzi, segretario di produzione: Renato Becchio, Arrigo Peri.
Sinossi
«Giovane ingegnere provinciale, Carlo Rivelli sbarca a Milano come Rastignac a Parigi, lasciando nella sua cittadina natale amici e fidanzata. Fin dalla prima sera, passata in un cabaret alla moda, fa la conoscenza di Rita, cortigiana di gran classe che naviga nell’alta società milanese e sgrana dietro di sé una folla di amanti miliardari, pronti a morire o a uccidersi l’un l’altro per un suo sguardo. Facile indovinare il seguito: Rita trova in Carlo una freschezza, una sincerità a cui non è più abituata, e nasce l’Amore, con la maiuscola. Ahimé! Uno dei vecchi amanti di Rita architetta una macchinazione diabolica che farà rientrare soltanto se Rita accetta di liquidare il giovanotto. Se invece rifiuta, il malvagio si applicherà a rovinare Carlo e la sua famiglia. Rita, definitivamente convertita, si sacrifica; d’allora in poi condurrà una vita miserevole, vagando e tossendo per strade e viali, fino alla morte, in sanatorio. Il cattivo, divenuto buono, racconta a Carlo nei dettagli gli ulteriori episodi della vita di Rita. Ma Carlo è ormai felice, così ci si dice, ha sposato la fidanzata, e dunque Rita resterà l’unica vittima di questa romantica avventura» (F. Truffaut, “Arts”, n. 461, 1954).
Dichiarazioni
«Negli anni Cinquanta, Torino era diventata un po’ la legione straniera del cinema italiano. A capo di tutto c’era Venturini, che era stato messo da parte perché aveva lavorato con Mussolini. C’ero io, che non mi ero ancora del tutto ripreso dalle stroncature veneziane per La fiamma che non si spegne, e così via. Però si guardava al futuro, si facevano coproduzioni con la Francia, si faceva il lavoro al meglio. […] Ad esempio, mi interessava molto l’uso dei silenzi. Con il cinema sonoro si è avuta una degenerazione. Tutti parlano in fretta, non si zittiscono mai: quanta nostalgia per il silenzio! […] Ho cercato questo soprattutto in Traviata ’53. Cercavo l’interiorizzazione, e l’obiettivo entra nell’animo: con la macchina da presa arriviamo a una scoperta graduale del personaggio. All’atto di girare il film ci stupiamo noi stessi delle scoperte della macchina da presa. Pensiamo a Ordet di Dreyer: la natura umana, la vita, la morte sono estratte dall’interno dei personaggi ed esibite. Del cinema mi interessa soprattutto questo e non c’è differenza se il film è in panni moderni o in costume visto che si può ottenere lo stesso risultato, l’importante è avere chiaro il fine ultimo. Quando negli anni Cinquanta lavoravo a Torino, lo facevo con questo spirito» (V. Cottafavi, in D. Bracco, S. Della Casa, P. Manera, F. Prono, a cura, Torino città del cinema, Il Castoro, Milano, 2001).
«A partire dal melodramma, io cercavo qualcosa d’interiore, qualcosa di vero. Cercavo di riprendere col cinema l’anima, i sentimenti segreti. Io credo che l’obiettivo della macchina da presa è più intelligente di noi che ce ne serviamo, e che, forse, può vedere, vede sicuramente all’interno dei personaggi più facilmente dell’occhio normale» (V. Cottafavi, “Positif”, nn. 100/101, 1969).
«Il film più importante tra quelli che ho girato con Giorgio Venturini, resta Traviata 53. L'idea iniziale era nata proprio da Venturini che la propone a Tullio Pinelli. Per garantirsi un nome di richiamo avrebbe voluto coinvolgere nel film anche Giorgio Strehler come collaboratore, che tuttavia non era interessato al cinema. Così me lo feci da solo. Il film, pur ambientato a Milano viene girato in parte in una Torino "milanesizzata". Il film passa del tutto inosservato. Io avevo la critica contro perché ero considerato filofascista, anche da coloro con cui avevo fatto la sceneggiatura del Sole sorge ancora, dove è pur vero che avevo cercato di eliminare quelle che consideravo faziosità gratuite. Il neorealismo infatti, era spesso un "neofeticismo". Poi Antonioni aveva fatto poco prima di me Cronaca di un amore e quasi in contemporanea La signora senza camelie. Infine c'era Venturini, se ero sospetto io, figuriamoci lui! […] In Traviata 53 intendevo far capire come la donna venisse usata come uno strumento, la bella amica, le pellicce, i gioielli, erano le etichette che l'industriale presenta ai suoi clienti e al suo pubblico. Oggi potrei dire che si trattava di un film quasi "femminista", del resto io ho sempre fatto film femministi. Il mio femminismo è legato ad una convinzione morale ma anche psicologica: le donne mi interessano di più perché sono più armoniose, più utili, ma soffrono anche di più, e questo è stato forse anche causa dei disguidi col pubblico, perché tutta quella sofferenza dava noia, lo spettatore voleva divertirsi. Come scopo parallelo il film intendeva criticare la società dell'epoca, non erano ancora gli anni del boom, ma tutti esibivano già la loro ricchezza. Volevo dare un ritratto veramente realistico, potremmo dire veristico per riallacciarci alla nostra tradizione letteraria, senza cercare di ingannare, ma mettendo nella rappresentazione quella partecipazione, quella pietà, che è sempre stata scopo non ultimo dei buoni film. […] È la maledetta mentalità che spinge noi italiani a fare discorsi politici e prenderli sempre troppo sul serio. Erano tutti così presi in questo genere di discorsi, che in quegli anni nessuno si accorse nemmeno dei piani-sequenza di Traviata 53. Per me, tra l'altro, non era un modo per intervenire artificialmente sui personaggi, ma era soltanto il cercare una continuità d'immagine, di fondamentale importanza perché sottolineava uno iato nel momento stesso in cui quella continuità veniva meno e si apriva il discorso su un'altra continuità. Non ho mai considerato il piano-sequenza bello in sé, ma è come quando noi guardiamo un quadro, osserviamo tutto quello che contiene la cornice, e poi ci diciamo: "peccato che non continui"! Il piano-sequenza è la continuazione di un quadro che fa procedere il suo discorso oltre la cornice. Ne discutevamo spesso con Antonioni in quegli anni, anche lui aveva il senso del piano-sequenza, che naturalmente non chiamavamo così» (V. Cottafavi, in L. Ventavoli, Pochi, maledetti e subito. Giorgio Venturini alla FERT (1952-1957), Museo Nazionale del Cinema, Torino, 1992).
«Naturalmente il film più importante che ho fatto per Venturini è stato Traviata 53. Film che in Italia ebbe una storia complicata, con difficoltà quasi inspiegabili. Basti pensare che quando lo vedemmo in visione privata con l'ENIC eravamo tutti commossi, convinti che sarebbe stato un grande successo. Al punto che l'ENIC, nel mese di luglio, manda subito alle agenzie regionali una lettera che diceva: “Abbiamo avuto il piacere di visionare ieri completamente approntato questo film che ha risposto in pieno alla nostra aspettativa. Teniamo dirvi che si tratta di un lavoro non soltanto eccellente dal punto di vista commerciale, ma anche realizzato con dignità e decoro veramente eccezionali. Desideriamo farvi presente che, oltre naturalmente alla ottima interpretazione di Barbara Laage, in questo film risultano nel modo veramente sorprendente le doti artistiche di Armando Francioli che nel suo delicato ed importantissimo ruolo ha saputo creare un personaggio che non verrà dimenticato. Infine, Traviata 53 possiede il pregio di avere un commento musicale di altissima classe e che certamente verrà apprezzato dal pubblico”. L'ENIC decide insomma di mettere Traviata 53 come capogruppo di un listino di film che, per quell'anno, comprendeva all'ultimo posto I vitelloni di Fellini. Come sia andata lo sappiamo... E le ragioni del fiasco possono forse spiegarsi con la scelta sbagliata di Eduardo De Filippo nella parte dell'industriale milanese, con quel suo volto da napoletano, scavato da una fame atavica. Poi il film esce male, in agosto, al Barberini di Roma; Cottafavi aveva tutta la critica contro e anche Venturini non era affatto ben visto per il suo passato. In realtà, come produttore, Venturini aveva un grande difetto: prima di farlo si innamorava del film, durante la lavorazione cercava di risparmiare facendo soffrire i poveri registi, e una volta finito lo abbandonava passando subito ad un altro progetto. Così Traviata 53 è stato un insuccesso strepitoso. Io credevo di aver fatto chissà cosa, avevo anche una cointeressenza nel film, e non ho mai preso un soldo. Ma per Traviata 53 resta comunque scandaloso il fatto che addirittura la musica è stata mal criticata, mentre c'è un assolo di Chet Baker durante i funerali che è stupendo, straordinario» (A. Francioli, in L. Ventavoli, Pochi, maledetti e subito. Giorgio Venturini alla FERT (1952-1957), Museo Nazionale del Cinema, Torino, 1992).
1952: il produttore Venturini sbarca a Torino e nel breve giro di alcuni anni raggruppa intorno a sé uno studio system di stampo americano, vale a dire un complesso di collaboratori fissi, artistici e tecnici, raggruppati intorno a uno studio ben attrezzato in grado di permettere la realizzazione contemporanea di due o tre film di genere e di garantire una lavorazione a ciclo continuo. Tra i personaggi coinvolti da Venturini spicca Vittorio Cottafavi (che gira per lui Il cavaliere di Maison Rouge, Avanzi di galera) il quale nel 1953 realizza uno dei suoi migliori lavori con Traviata ’53, una trasposizione cinematografica di La signora dalle camelie di Dumas.
In Traviata ’53 Cottafavi riesce, nonostante il romanticismo del soggetto originario, a tracciare un ritratto veritiero e credibile della borghesia torinese (come l’Antonioni di Cronaca di un amore e Le amiche), aiutato in questo anche dalle buone interpretazioni dei protagonisti (Barbara Laage e Armando Francioli, bello e gentile, molto attivo in quegli anni a Torino) e dalla pregevole fotografia dell’“artigiano” torinese Arturo Gallea. Cottafavi innova anche il cinema di Venturini con un uso insistito del piano sequenza, impreziosendo i ritratti di personaggi femminili particolarmente amati e la leggerezza ironica (poco presente nell’originale dumasiano) che sottostà a tutti i suoi melodrammi.
L’apporto di Cottafavi «al filone del melodramma, molto amato dal pubblico del tempo, si realizza attraverso cinque titoli (Una donna ha ucciso, 1952, Traviata ’53, 1953, Una donna libera, 1954, Nel gorgo del peccato, 1954, In amore si pecca in due, 1954) nei quali analizza altrettante figure di donne rivelando grande sensibilità e attenzione verso la psicologia femminile. Di questa pentalogia sulla condizione femminile, l’opera certamente più significativa, che lo stesso Cottafavi considera la migliore e uno dei suoi film meno condizionati da fattori esterni, realizzati con maggiore libertà creativa, è senza dubbio Traviata ’53» (G. Rondolino, Vittorio Cottafavi, Bologna, Cappelli, 1980).
Sostanzialmente ignorato in Italia, il film è molto amato dalla critica francese: François Truffaut, dopo aver lodato l’umanità e la verità dei personaggi, accosta il film a Cronaca di un amore di Antonioni. «Il film è del genere di quelli che catturano l’interesse degli spettatori, ma di cui i critici, se pure li vedono, danno conto con la morte nel cuore. Fille d'amour, tuttavia, è l’eccezione che conferma la regola, visto che si tratta, in fin dei conti, di uno dei migliori film italiani apparsi quest’anno sugli schermi parigini. Gli autori, che gli hanno dato come sottotitolo Traviata 53, non si preoccupano minimamente di nascondere il fatto che il loro film costituisce un plagio di uno dei massimi esempi della nostra letteratura romantica: La Dame aux camélias. Ma questa storia, ai giorni nostri priva di senso, inverosimile e melodrammatica, Vittorio Cottafavi ha saputo renderla sensata, verosimile e realmente drammatica. Messa al servizio di una affabulazione di maggiori pretese, la messa in scena del film, ricercata e un po’ scolastica, richiederebbe qualche rilievo, ma in un contesto così melodrammatico la cura, l’applicazione, la ricerca di buon gusto costituiscono un’ambizione più che lodevole. Se il cinema italiano di qualità è infatti caratterizzato dall’originalità di soggetti guastati dalla mediocrità della tecnica, si capirà allora come questo film, che è l’esatto contrario, risulti mille volte più interessante da vedere di quelli di De Santis, Lattuada, Germi, Visconti e di tanti altri registi esageratamente lodati dagli intenditori. Imbroglio tecnico se mai ce ne fu, La Dame aux camélias, sorta di Fedra dei poveri, trova qui nei suoi minimi dettagli, una verità, un’umanità nuova, grazie alla continua invenzione nella recitazione degli attori, nei loro atteggiamenti, i loro gesti, i loro sguardi. La scelta degli esterni, degli interni dal vero, delle scenografie, si conferma infatti come il contrassegno del buon gusto degli attori. Barbara Laage trova qui la sua miglior parte, liberandosi delle eccessive riserve delle sue precedenti interpretazioni. Un’ombra sullo schermo: la musica, che pur essendo di qualità, resta tuttavia invadente e inadeguata. Perfetta invece la fotografia. La produzione italiana, come quella americana, si appresta dunque in futuro ad ammanirci simili sorprese? Non ci resta davvero che augurarcelo» (F. Truffaut, ?Arts? n. 461, 28.4.1954).
«Io mi situo tra coloro che rifiutano di credere all'esistenza del cinema italiano (eccettuati Rossellíni e Antonioni). E dunque ancora maggiore, e letteralmente impressionante, è stata per me la sorpresa di Fille d'Amour, che invece gli specialisti in italianerie. (anche ammettendo che se ne siano dati qualche pena), sembrano non tenere in alcun conto. Fille d'Amour, sottotitolato, e non ne capisco proprio il motivo, Traviata 53, è esattamente un adattamento moderno di La Dame aux Camélias; e non mi resta che prendere atto:
1) che non c'è alcuna caduta di gusto, anzi semmai il contrario;
2) che il sordido e il miserabilismo non vi giocano alcun ruolo;
3) che per la prima volta Barbara Laage recita, cioè si muove, smuove, ride, piange e saltella;
4) che il regista Vittorio Cottafavi, di cui a Parigi si è avuto modo di vedere soltanto Milady et les mousquetaires (Il Boia di Lilla), ha saputo cavarsela più che onorevolmente e che il suo Fille d'Amour mi ha fatto irresistibilmente pensare a Cronaca di un amore» (R. Lachenay, alias F. Truffaut, “Cahiers du Cinéma” n. 36, giugno 1954).
Barbara Laage e Armando Francioli costituiscono una coppia molto ben assortita : lei capace di reggere il peso fisico ed espressivo della “donna perduta”, lui passionale ma misurato ed elegante. Fuori ruolo appare invece il grande Eduardo De Filippo come il vecchio e ricco amante della protagonista: scelto per la sua popolarità, venne doppiato in quanto doveva interpretare un industriale lombardo, e con una voce diversa dalla sua non pare per nulla credibile.
Ottimi gli altri attori ed i collaboratori tecnici, tra i quali ricordiamo il musicista Giovani Fusco, il quale «soprattutto a partire dal ’50 (Cronaca di un amore) a fianco di Antonioni andava sperimentando un modo tutto nuovo di pensare e comporre le colonne sonore. Dapprima abbandonando la proposta insistita di un tema conduttore e poi, con l’abolizione delle grandi orchestre e l’uso di pochi strumenti solisti, l’inizio di un lavoro raffinato di penetrazione delle storie e dei personaggi. […] Fusco riceve da Antonioni e Cottafavi dei segnali precisi. Siamo solo nei primi anni ’50, e le città del Nord non hanno ancora subito gli oltraggi architettonici e sociali degli anni ‘60 e ’70, ma per questi due autori le città sono già luoghi di solitudine, di incomunicabilità. […] La città di questi autori è fredda, se non ostile; vuota e lontana; quando la mdp vaga per quelle vie, si alza un suono straziato, talvolta persino lugubre; l’angoscia si insinua con sax, cornetta, pianoforte lasciati liberi di espandersi in volute gelide, c’è la lezione del cool forse, ma c’è soprattutto la nuova intuizione degli autori che chiedono ai suoni il naturale completamento del lavoro sulle immagini e sui loghi» (L. Ventavoli, Pochi, maledetti e subito, Museo Nazionale del Cinema, Torino, 1992).
«[…] il produttore - l'intraprendente Giorgio Venturini il quale ha già realizzato una mezza dozzina di film nei residui teatri di posa cittadini - senza peraltro far torto a Roma ha tutta l'aria di voler restituire a Torino un pezzetto almeno di quell'industria cinematografica che in altri tempi (tempi beati direbbe il pioniere Arrigo Frusta) ebbe qui degnissima sede: e ciò francamente, oltre ad essere lusinghiero per la città che riconoscente ringrazia, è da segnalarsi per gli evidenti aspetti pratici. A questo poi s'aggiunge, nel caso specifico, quell'altro fatto che il giovane Vittorio Cottafavi cui è affidata la regia dell'opera appar fermamente intenzionato a fare fuoco e fiamme per azzeccare qualcosa che esca dal limbo della mediocrità» (G. Corsi, "Gazzetta del Popolo", 21.5.1953).
«Il traliccio della notissima vicenda è press'a poco conservato, ma soltanto come schema, tutt'al più come itinerario. Raggiungere un'emozione e un clima romantici in ambienti tipicamente dei giorni nostri non sarebbe certo stato facile; non si sostituisce impunemente la carrozza a cavalli con una fuori-serie, il selciato di una via tortuosa con l'asfalto di un'autostrada. Troppe esigenze della vita d'oggi un po' soffocano e molto limitano slanci e abbandoni; li dànno come intenzionali, li svuotano di vibrazioni romantiche; e ne fanno un determinato caso, che non sempre appare di per sé convincente. Barbara Laage, la giovane attrice che si era affermata ne La p... respectueuse di Pagliero, affronta qui una prova assai complessa, e sia pure con lo svantaggio di essere sempre male fotografata, ha qualche accento vibrante» (M. Gromo, “La Stampa”, 13.10.1953).
«Oggi ci troviamo di fronte a una Traviata 53 di Vittorio Cottafavi, cui non è evidentemente estraneo l'esempio di Clouzot e della sua Manon (1949). […] La Manon di Clouzot offriva una certa prospettiva modernamente acre, entro cui si inserivano i personaggi mutuati dall'abate Prevost; la Traviata di Cottafavi […] non è che un parziale ricalco, di origine deteriormente letteraria e dai risultati assai poco eloquenti. Ricalco duplice, ché se lo spunto primo per il travaso è dovuto a Clouzot, il clima entro cui la romantica vicenda è stata, con preteso disincantato realismo, trasferita, è quello, né più né meno, di Antonioni e del suo Cronaca di un amore (1950). […] Traviata 53 nel ricalcare ambienti, situazioni, personaggi di Antonioni, rimane su un piano di assai maggiore genericità. L'impasto di realismo di seconda mano e di romanticismo residuo, da cui risulta il film, non offre una giustificazione plausibile, interiore (quale poteva essere il cinismo di Clouzot) per un simile tentativo, sprovvisto, ormai, di una sostanziale originalità. […] Il fulcro della nuova interpretazione risiede nella trovata che ha sostituito quello che è il centro della commedia: la decisione del sacrificio, vale a dire il dialogo col vecchio genitore […]. Nel film nessun incontro, nessun dialogo col padre, ma una volontaria rinuncia di Margherita, conseguente - udite, udite - alla circostanza che il suo amante ufficiale, potentissimo nel mondo degli affari, ha fatto, per vendetta contro la sua relazione col giovane, sospendere dalle banche i crediti all'azienda del padre di lui, crediti che vengono riaperti non appena la donna ha compiuto il sacrificio. L'espediente è abbastanza puerile ed improbabile, questo magnate dell'industria e della finanza che sfoga sul piano degli affari i suoi livori sentimentali è troppo ridicolo per essere preso sul serio. Specie quando, dopo tanto averne inteso parlare, lo si vede comparire con le sembianze di Eduardo De Filippo e la voce di Giulio Pancali» (G.C. Castello, “Cinema” nuova serie, n. 119, 15.10.1953).
|